Solo il 3% del nostro pianeta è rimasto ecologicamente intatto

Si chiamano wilderness quelle (poche) aree naturali della Terra che non sono state modificate in maniera irreversibile dalla mano degli umani. Sono habitat intatti e testimoniano la saggezza del nostro ecosistema. La pandemia da Covid-19 ci ha ricordato che quando il “sistema” si guasta produce danni incalcolabili. Uno studio recente pubblicato su Frontiers in Forest and Global Change ha messo nero su bianco calcolando che cosa ancora ci rimane della natura intatta che ebbimo in “dono”. Ecco i dettagli…


di francesco de rosa |


Sul tema dell’ambiente ora sappiamo, per esempio, che più di 30 anni fa, le aree wilderness – aree naturali che non sono state modificate in maniera notevole dagli esseri umani – erano molte di più e che ora quelle stesse aree sono state identificate come prioritarie per realizzare azioni di conservazione e protezione. Così se prima non si capiva in quale modo “misurare” l’entità del danno umano, di recente, finalmente, c’è stata una spinta a definire come misurare wilderness. L’attenzione ora è maggiore su quegli habitat intatti che compongono la lista delle wilderness. L’obiettivo è l’integrità degli ecosistemi naturali che è stata riconosciuta anche dalla Convention on Biological Diversity (CBD), organismo dell’Onu, come un obiettivo importante per il post-2020 global biodiversity framework che dovrà essere approvato dalla prossima Conferenza delle parti CBD che si terrà in Cina. Il patto sul clima messo a dura prova dall’era di Trump alla Casa Bianca ha fatto danno ma un danno che si può ricuperare.

Così non è un caso, proprio ora, ciò che che Andrew Plumptre del Key Biodiversity Areas Secretariat di Cambridge e principale autore dello studio “Where Might We Find Ecologically Intact Communities?” appena pubblicato su Frontiers in Forests and Global Change da un folto team internazionale di ricercatori, ha voluto sottolineare. «Sappiamo – ha detto Plumptre – che stiamo perdendo sempre più habitat intatto e i valori di un habitat intatto sono stati dimostrati sia per la biodiversità che per le persone, ma questo studio ha rilevato che gran parte di ciò che consideriamo habitat intatto manca di specie che sono state cacciate dalle persone». Ma, intanto, può accadere che l’habitat intatto dia origine alla categoria della intattezza e che, ancora oggi, essa non abbia una definizione comune. I ricercatori sono concordi nel ricordare che «Valutazioni passate, incentrate sulla mappatura dell’influenza umana sull’integrità dell’habitat, hanno creato mappe di impatto antropico che stimavano indipendentemente che tra il 20% e il 40% della superficie terrestre del pianeta sia rimasta esente da gravi disturbi umani (come insediamenti umani, strade e luce e inquinamento acustico)».

La svolta sul tema della intattezza però potrebbe darla proprio il nuovo studio che ha adottato un approccio diverso nella classificazione delle zone del mondo. Esso invece di concentrarsi sull’impatto umano, ha analizzato i siti Criterion C delle Key Biodiversity Areas (KBA), una classificazione secondo la quale «Una comunità ecologica intatta ha il pieno complemento di specie note per essere presenti in un particolare sito nelle loro abbondanze naturali (cioè perdita di animali non conosciuta in quella zona), rispetto a un parametro di riferimento regionale appropriato». Si sta sempre più male sul pianeta Terra e l’evidenza si fa calcolo scientifico. Sicché gli autori dello studio hanno scelto l’anno 1500 come data di riferimento per la valutazione delle estinzioni delle specie per la Lista rossa Iucn delle specie minacciate e, oltre all’integrità dell’habitat, hanno anche valutato l’integrità faunistica (nessuna perdita di specie animali) e l’integrità funzionale (nessuna perdita di densità animale al di sotto di un livello che influirebbe sul funzionamento sano di un ecosistema). La combinazione di queste 3 misure di intattezza riduce il numero dei siti che potrebbero essere qualificati secondo il Criterion C KBA.

«È preoccupante – si legge nello studio – che solo l’11% dei siti misurati sia coperto da aree protette. Molte delle aree identificate coincidono con territori gestiti da comunità indigene, che svolgono un ruolo cruciale nel mantenerle. Le aree identificate come funzionalmente intatte includevano la Siberia orientale e il Canada settentrionale per i biomi boreali e della tundra, parti delle foreste tropicali del bacino dell’Amazzonia e del Congo e il deserto del Sahara». Tuttavia potrebbe, come pure si legge nello studio c’è ancora speranza dacché «fino nel 20% della superficie terrestre del pianeta potrebbe essere ripristinata l’integrità faunistica attraverso la reintroduzione di poche specie nell’habitat rimasto intatto».

«I risultati – precisa Plumptre mostrano che potrebbe essere possibile aumentare l’area con intattezza  ecologica fino al 20% attraverso le reintroduzioni mirate di specie che sono andate perse in aree in cui l’impatto umano è ancora basso, a condizione che le minacce alla loro sopravvivenza possono essere gestite e i numeri ricostruiti a un livello in cui soddisfano il loro ruolo funzionale». L’impegno per il futuro passerà anche l’identificazione delle aree ai sensi del Criterion C KBA che potrà aiutare a concentrare l’attenzione su questi siti per la conservazione e il ripristino. Plumptre non ha dubbi su questo: «È stato dimostrato che l’habitat intatto ha importanti vantaggi sia per la fauna selvatica che per le persone e, di conseguenza, deve essere un obiettivo critico dei negoziati in corso sul post-2020 global biodiversity framework della Convention on Biological Diversity. È necessario il riconoscimento di questi luoghi speciali all’interno di habitat intatti, dove si ha la piena intattezza funzionale, e si prevede di concentrare il ripristino nelle aree in cui l’integrità ecologica potrebbe essere recuperata».

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