L’eterno dilemma tra avere o essere. Ecco perché la modernità è davanti allo stesso problema…


di antonio de simone | sociologo


Ero rimasto molto colpito dal senso che coglievo nell’articolo pubblicato sul suo portale web da Francesco De Rosa qualche giorno fa: “Il Bianco, il Nero e le altre sfumature di questa pandemia”. Mi aveva dato molto da pensare!  Riflettendoci adesso, mi sembra che abbia costituito l’occasione che mi ha spinto a trattare fatti che hanno dei grossi risvolti, non solo sociologici. Mentre scrivo, ho sempre più chiaro il risultato che vorrei raggiungere, quello di mettere a Vostra disposizione qualche chiave di lettura in più (che auspico) utile a interpretare l’attuale momento della nostra storia sociale. A tal fine richiamerò brevemente l’attenzione sui modelli comportamentali, individuali e sociali, cui ci indirizza l’economia che domina incontrastata ormai dai lontani anni ottanta, ma esporrò anche  alcune tesi che confermano l’esistenza di altri modi di guardare le cose, le scuole economiche che a diverso titolo sono in disaccordo con il pensiero neoliberista partorito dalla M.P.S. (Mont Pelerin Society, fondata nel 1947 dall’economista inglese Friedrich von Hayek).  

Sono consapevole che per fare ciò ho utilizzato uno spazio consistente, sembra più una dispensa che un articolo! Ho comunque considerato questa scelta necessaria per trattare argomenti così importanti, spesso esposti in maniera approssimativa, superficiale e unilaterale: “sapere è sempre meglio che non sapere” questa è l’eredità che mi hanno lasciato i miei Maestri! Se nonostante queste premesse restassero pochi coloro che fruiranno di questo lavoro non sarò del tutto soddisfatto in quanto verrebbe meno il mio auspicato e ambizioso obiettivo, quello di coinvolgere e stimolare quante più persone possibile a cercare sempre la propria spiegazione, a questa come ad altre importanti questioni. Ritornando all’articolo di riferimento, mi riconosco in quella che mi è sembrata la sua tesi centrale, la reputo corretta, positivamente provocatoria e in grado di favorire più ampie e approfondite considerazioni. La ritrovo nel modo di agire di tante persone, che siano semplici cittadini, appartenenti all’intelligentia o che rivestano cariche politiche: tutti concorrono ad amplificare quello che è percepito come un senso d’intolleranza, una multiforme insoddisfazione che si traduce nel modo dell’essere contro. S’indicavano, a conferma di tale norma di comportamento, una serie di prese di posizione, atteggiamenti che, si faceva notare, reiterati,  alimentano una preoccupante escalation d’intolleranza. Non c’è dubbio che sarebbe auspicabile, soprattutto adesso, riscontrare diffusi atteggiamenti equilibrati, consapevoli e collaborativi. Non dovrebbe essere un mistero per nessuno che per agevolare l’uscita da questa fase, particolare e delicata, bisognerebbe procedere con la giusta cautela e rispettare tutti i pochi e chiari comportamenti di distanza sociale e di sanità personale (accompagnati da molto buon senso).

Alcuni dei messaggi che cogliamo attraverso i mezzi di comunicazione sembrano non sostenere quest’auspicato comportamento, assomiglia, invece, troppo spesso, a uno spettacolo, a delle esibizioni di forza. Il centro del palcoscenico è occupato da chi appare impegnato ad affermare e difendere le proprie specificità, quelli che definiscono bisogni irrinunciabili, piuttosto che il bene comune. Questo, purtroppo, può valere per chi è a capo di una regione, di un’azienda o solo di se stesso, per chi ha evidenti interessi politici di parte e per chi non è facile da collocare, né politicamente e tanto meno per suoi presunti vantaggi che potrebbe trarre dall’assumere tali posizioni. Questa potenziale Torre di Babele potrebbe farci perdere di vista la realtà con cui dobbiamo confrontarci. Per difendersi da questo rischio bisognerà preservare la propria capacità analitica e critica. Puntare a costruire un’auspicabile Vita autodeterminata e consapevole, il che implica un costante impegno ad adottare un approccio documentato alle questioni: si dovrebbe tenere conto di tesi e punti di vista differenti e diffidare delle facili spiegazioni, poiché queste, troppo spesso, conducono a conclusioni non affidabili. V’invito a considerare come un argine psicologico, che ci può difendere da questi ultimi rischi, quello di riconoscere le cose per quello che sono, di non farci guidare da preconcetti. Poiché essi riflettono nostre esperienze, modi di pensare, sono comunque riferibili a situazioni estranee e differenti, il che non ci aiuta a riconoscere i fatti per quello che sono ma per quello che vorremmo, o no che fossero. Per esperienza sappiamo, e gli studi lo confermano che un’attesa delusa può produrre un malessere da inadeguatezza, ci spinge a chiuderci in noi stessi esprimendo un rifiuto generalizzato. Tutti questi ingredienti ci conducono a percepire noi stessi come feriti, sconfitti: questa miscela esplosiva ci predispone al sentimento dell’Essere Contro perché tutto e tutti sono responsabili  del nostro insuccesso, anche se non l’hanno determinato loro, certamente non hanno evitato che accadesse, è un gatto che si morde la coda! Grazie a questi e ad altri elementi si arriva a definire lo stereotipo dell’uomo contemporaneo, in speciale modo del genere maschile,  come quello che è schiacciato dal peso delle responsabilità, che non riesce a stare al passo di quello che l’é richiesto e di come sia diventato meno centrale, meno vincente e importante, sia nella famiglia che nella società (da L. Zoje, Il gesto di Ettore, mia interpretazione). D’altra parte la solitudine e l’inquietudine in cui si viene a trovare sono una delle facce di una stessa medaglia, l’altra è quella che gli propone l’acquisita condizione di uomo libero. Sembra che di questa condizione, di quest’ autodeterminazione l’uomo, in alcuni periodi della sua storia recente, ha dimostrato di averne paura, di sfuggirla fino a rifugiarsi, a consegnarsi ad un’autorità esterna che decidesse per lui; secondo Erich Fromm il Fascismo, il Nazismo dovevano buona parte del loro successo al fatto che, per la loro ideologia e le relative modalità di metterla in pratica, costituivano una risposta a questi bisogni. Infatti, sostituendo alla volontà del singolo quell’ imposta dall’autorità, sollevavano i loro adepti dal peso che può rappresentare la responsabilità, quello di effettuare del le scelte. Come ho premesso, ci sono molte persone che manifestano insofferenza verso il sistema sociale in cui viviamo, non ne condividono alcune o molte delle regole che lo guidano e lo determinano. Mi viene da pensare che se costoro volessero uscire da questa condizione e provare a invertire la rotta tracciata, dovrebbero, per prima cosa, acquisire piena consapevolezza di quello che sono adesso, sia a livello individuale che sociale, e di come sono arrivati ad esserlo, di conoscere quali ideali e interessi li hanno spinti ad effettuare le necessarie scelte . Ci può aiutare in questo senso un’efficace definizione che Erich Fromm dà dell’uomo contemporaneo, della sua essenza, di come sia stato modellato, dei valori che gli sono stati indotti dalla cultura sociale ed economica adesso dominate.

Il Neoliberismo lo spinge a perseguire come obiettivo primario, attraverso le azioni che mette in atto, la condizione dell’avere, intesa come l’acquisizione di oggetti (e di un’altrettanto ambita condizione sociale) che appagano un piacere soggettivo ed egoistico (egoico non animico). Nel testo Avere o Essere l’autore sembra rendere con estrema chiarezza la sua idea dell’attuale condizione umana (quando afferma): “.. ridotto a ingranaggio della macchina burocratica, manipolato nei gusti, nelle opinioni e nei sentimentidai governi, dall’industria, dai mass media; costretto a vivere in un ambiente degradato”.Questa condizione umana sarà sempre più utile all’affermarsi del Neoliberismo attraverso la figura dell’Intellettuale Collettivo. Questa eccellente trovata strategica si farà portatore di poche certezze. Una di queste verità che risulterà particolarmente strumentale al progetto (che tutti conoscono, chi non se l’è sentito dire almeno una volta) si può tradurre: Ognuno èpadrone del proprio destino. In realtà, come ogni verità data è assiomatica, si auto conferma, non c’è bisogno di  dimostrarla. Ci viene da pensare che i  vantaggi che da essa deriveranno li riceveranno quelli che l’hanno stabilita, inoltre, il fatto stesso che riesca a farlo, ci conferma che proviene da qualcuno o qualcosa di forte, che occupa una posizione preminente e dominante nella società. E’ un messaggio che può apparire, a una prima riflessione, inconfutabile; sembra rassicurare chi lo riceve giacché non gli preclude alcun obiettivo, al contrario riesce a farlo identificare con esso: la chiarezza sarà la qualità che le permetterà di essere accolto con favore, di essere messo in atto senza problemi. È molto probabile che a questo pensassero Milton Freedman e i suoi Chicago Boys quando proponevano le loro ricette agli economisti del governo britannico e di quello americano, eravamo all’inizio degli anni ottanta. La tesi-slogan delle strategie suggerite nelle loro relazioni tecniche, necessarie per rafforzare e rilanciare le economie dei due paesi,  i più rappresentativi del capitalismo mondiale, si può così sintetizzare: l’assoluta e indiscussa centralità del liberomercato. Ci dovranno fare i conti tutti quelli che si batteranno contro i tagli agli investimenti per la scuola e la sanità pubblica, saranno definiti degli ignoranti, inconsapevoli sabotatori, nemici del progresso. S’imputerà a queste prese di posizione di non tenere nella giusta considerazione la necessità di evitare costi certi e immediati a fronte di benefici improbabili è comunque a medio-lungo periodo, e potrei continuare, quindi i tagli restano l’unica soluzione possibile. Questo tentativo di motivare tali decisioni  mette in luce i veri e irrinunciabili obiettivi economici connaturati a questo sistema.  Il primo, il più importante, la mission neoliberista, è quello di realizzare profitti alti in tempi brevi per favorire l’accumulazione del capitale. Per far ciò è necessario che si applichino ricercate strategie finanziarie, cioè che si utilizzi la ricchezza, prodotta dai vari settori dell’intera economia per investimenti e scambi, a fini speculativi, denaro per denaro. Adesso che questa idea si è pienamente affermata (con la buona pace di Keynes e delle economie pianificate) possiamo ipotizzare che il suo maggiore risultato è stato quello di diventare un  pensiero guida, di creare una visione del mondo. Spendiamo due parole per meglio comprendere le differenze, se ci sono, tra due termini, due concetti che spesso ricorrono: Economia e Finanza. La parola “economia” deriva dal greco oikos, “casa” inteso anche come “beni di famiglia”, e νόμος (nomos), “norma” o “legge”. Con tale termine, difatti, s’intende sia l’utilizzo di risorse scarse per soddisfare al meglio sia i bisogni individuali che collettivi organizzando la spesa, sia un sistema di organizzazione delle attività di tale natura, poste in essere a tal fine da un insieme di persone, istituzioni e organizzazioni. Da qui nasce il concetto di sistema economico, in altre parole, la rete d’interdipendenze e interconnessioni tra operatori e soggetti economici. La “finanza” si può intendere come “quella scienza che studia le modalità di allocazione del denaro tra usi alternativi, al fine di massimizzare la propria soddisfazione”. Nella maniera più specifica, per finanza s’intende quella disciplina economica che tratta i processi con cui imprese, enti, organizzazioni e stati, gestiscono i relativi flussi monetari nel tempo. Da queste definizioni deduco, con piacere, che sbagliano quelli che considerano l’economia come un freddo meccanismo che combina più fattori tenendo un occhio preoccupato a indicatori come lo Spread e il PIL, invece è o forse è più corretto dire nasce per permettere di soddisfare al meglio sia i bisogni individuali sia quellicollettivi. La finanza che è una sua branca, è andata ben oltre, com’era facile aspettarsi, creando meccanismi sempre più ricercati, per allocare il denaro, al fine di massimizzare la propria soddisfazione.  Da queste definizioni ci portano a concludere che la Finanza è una modalità dell’economia che utilizza i suoi strumenti per produrre maggiori profitti. Per completezza, aggiungo, che mentre il PIL (Prodotto Interno Lordo) mondiale per attività è stimato in 54 trilioni di dollari, per contro gli attivi delle operazioni finanziarie vengono stimati in circa 240 trilioni di dollari (dati riferiti al 2007), più di quattro volte superiori. Come i fatti confermano, il sistema finanziario garantisce grossi guadagni, anche esponenziali, a chi manovra grandi capitali e accede a informazioni attendibili. Non parlo di singole persone ma di sezioni  facenti capo a banche e a fondi speculativi. I fatti sembrano indicarci che ogni volta che spostano grandi quantità di azioni, interpretano valutazioni di società di rating o dichiarazioni provenienti dalle varie istituzioni, politiche e economiche, per poi scommettere sulla crescita oppure l’arretramento di significativi comparti economici. Adesso suggerisco un’educativa pausa cinematografica, la visione di almeno il primo dei due lavori di Oliver Stone dedicati a Wall Street; scopriremo che il protagonista Gordon Gekko condensa in una sola affermazione: “Stiamo diventando tutti pazzi?”, quello che ormai si chiedono in molti. Per rimanere a casa nostra, da questa prospettiva, quali sarebbero i settori della nostra economia che reggeranno alla sfida della finanza? Provo a ipotizzare che possiamo escludere, come già abbiamo detto, certamente, quelli della scuola e della sanità pubblica ma non solo. Le numerose delocalizzazioni di molte industrie, la chiusura di molte altre, appartenenti a più settori economici, sono state attuate perché considerate poco competitive e/o produttive? Questo ci pone un problema molto ampio e altri interrogativi. Poco competitive rispetto a chi? Poco produttive a fronte di quali obiettivi? E quello che non è da trascurare, nel perseguire quali livelli qualitativi? E’ plausibile che l’unico indicatore che sarà valutato, ogni volta, sarà solo il livello dei profitti (non la grandezza dell’azienda, gli occupati, le tecnologie, ecc.) per decidere la sopravvivenza o meno delle aziende? Pur rimanendo nella logica neoliberista e nella sua visione del mondo, propongo a ognuno di ricercare le risposte ai quesiti su elencati (e ad altri che potrebbero sorgere): ciò sarà utile a comprendere perché sono stati determinati gli attuali valori, piuttosto che altri, per indirizzare il mondo del lavoro, quello che condiziona fortemente la qualità della nostra Vita. Qual è l’impressione che si ha rispetto ai comportamenti che la condizione economica porta ognuno ad assumere? Sembrano, troppo spesso, riflettersi l’uno nell’altro condizionandosi reciprocamente. Gli stessi comportamenti appaiono differenti, non per la loro natura ma in funzione di chi li assume, delle sue condizioni economiche; come se si fosse affermata come verità assoluta che si può riassumere in una semplice equazione: avere equivale a essere. Come conseguenza molti impegnano, buona parte del tempo  ad acquisire e possedere ogni tipo di oggetto che li vesta, addobbi la loro casa o rappresenti un valore anche per gli altri, che li mostrino attraverso simboli di status e li facciano apparire come vorrebbero essere percepiti dagli altri. Questa visione della vita si è radicata nella mente di gran parte della popolazione del mondo soprattutto tra gli abitanti di quello definito “evoluto”, quello industrializzato. I modelli da emulare, cui somigliare sono solitamente veicolati dalla pubblicità. Le tecniche che essa utilizza sono molto avanzate ma il messaggio subliminale sembra essere sempre lo stesso: se vuoi facilitare la tua affermazione, se miri a essere ben considerato, vincente, nel privato come nel lavoro, devi possedere e mostrare i simboli di questo tuo benessere; esso diventa più credibile se è avvicinabile e paragonabile a quello di chi occupa posizioni alte e invidiabili della scala sociale. Sarà per tutto questo, e non deve meravigliarci, che molte persone, anche in un momento di eccezionale congiuntura non riescano a liberarsi dalle idee indotte e dalle preoccupazioni che esse determinano; quella principale é che non stanno partecipando attivamente ai profitti e all’accumulazione di capitale. Poiché, indipendentemente dal grado di consapevolezza e di acculturazione, vivono le negatività che tale frustrazione determina; non riescono  a utilizzare razionalmente, con il necessario distacco, le conoscenze tecniche che li potrebbero aiutare indicandogli prospettive differenti. Se lo facessero, comprenderebbero che per quanto la situazione sia molto complessa, difficile, soprattutto sul piano economico,  accomuna profondamente tutti i paesi che determinano la ricchezza mondiale, inevitabilmente, insieme e non senza contrasti, sarebbero costretti a individuare le risorse che permetterebbero a tutti di uscire dalla fase acuta della crisi e che sosterrebbero la loro ripresa. Per ritornare a essere, a riconoscerci, come atto propedeutico potremmo impegnarci a ridurre tutto ciò che ci distrae dall’ascoltare, dall’osservare e, ogni volta che sarà necessario, ampliare le nostre conoscenze attraverso la lettura e lo studio. Molti esempi c’inducono a collegare risultati di una certa analisi ai principi, alle teorie elaborate della scuola economica d’appartenenza di chi ne è autore. Ne consegue, per prima cosa, che se sapessimo accedere a più teorie economiche avremmo a disposizione più considerazioni e potremmo valutare, scegliendo tra le diverse conclusioni. Se invece ci fossero proposte, nelle modalità già esposte, soltanto quelle prodotte dal pensiero economico dominante, ininterrottamente negli ultimi quarant’anni, la maggior parte di noi le accoglierebbe e le metabolizzerebbe come, se non le migliori, le uniche possibili e valide: questo è quello che è accaduto! A questo risultato poco encomiabile ha dato il suo contributo anche il fatto che molti importanti economisti, hanno abbandonato le teorie a cui facevano riferimento (i più erano neo-keynesiani ) ed hanno aderito alla scuola Neoliberista. Come ho detto, erano e sono economisti di alto profilo e alcuni di loro hanno collaborato con Freedman nel delineare la politica economica che, a partire dagli anni ottanta, è stata adottata per prima dal Regno Unito (guidato da Lady Thatcher) e dagli Stati Uniti (del presidente  Reagan); per poi condizionare, via via, tanti altri Paesi, sia come scelte strategiche che come teorie economiche.

Luciano Gallino

Nel 2015, il sociologo Luciano Gallino, grande studioso del Neoliberismo, dava la seguente definizione dei temi che ne costituiscono l’essenza: 1) la liberalizzazione dei movimenti di capitale; 2) la superiorità del libero mercato e 3) la categorica pretesa che lo Stato sia ridotto al ruolo di costruttore e guardiano delle condizioni che permettano la massima diffusione dell’uno e dell’altro.  L’autore sviluppa un’analisi vasta e approfondita dei successi e i fallimenti di queste teorie economiche arrivando alla conclusione che i secondi sono maggiori dei primi e hanno portato, più recentemente, a perdite pesanti per l’economia mondiale, attraverso un’operazione speculativa nota a tutti, il fallimento dei sub-prime (mutui facili). L’operazione aveva portato alla concessione di  milioni di mutui ipotecari, ignorando e sottovalutando che le famiglie non avevano i mezzi per pagare, fu questa la scintilla o l’incendio che diede il via alla crisi nel 2007. Propostisi l’ipotesi plausibile che il nostro attuale Modus Operandi  sia il risultato del lavoro, puntuale ed efficace, dell’Intellettuale Collettivo, figura chiave della scuola neoliberista, vorrei comunicare informazioni e fare dei riferimenti a economisti che appartengono ad altre Scuole di pensiero e che propongono un differente approccio alle problematiche con un relativo utilizzo delle risorse economiche (pensiamo a quelle climatiche, della difesa della natura, ecc.). Ci sono numerosi studi e teorie economiche recenti, elaborate da diversi grandi economisti  (anche premi nobel) che sono spesso ignorate dai mezzi di comunicazione radio televisivi, sia come semplici informazioni sia come approfondimenti delle trasmissioni di carattere scientifico, di settore. Alcuni hanno prodotto tesi, ipotizzato e argomentato teorie economiche che prospettano interventi ascrivibili a quella che è stata definita la psico-economia o economia delle emozioni. Tra questi, vorrei indicarvi quelli che hanno portato all’elaborazione di una strategia collocabile soprattutto nel campo della micro-economia da parte dello studioso R. Thaler (premio nobel  per l’economia nel 2017) e dal giurista C. Sunstein. La spinta gentile (Nudge , il pungolo) è questo il concetto centrale di questa teoria. In sintesi , viene dimostrato che per introdurre pratiche di buona cittadinanza, poiché siamo condizionati da troppe informazioni contrastanti, occorre imparare a usare a fin di bene l’irrazionalità umana. Queste conclusioni si basano su riscontri scientifici che includono e considerano importanti e decisive, nel concorrere alla realizzazione di buoni risultati, azioni che una volta sarebbero state relegate in aree culturali considerate prive di scientificità, quali la psicologia, la filosofia e la sociologia. È ormai noto che molti gli economisti e studiosi di altre discipline, non riconoscono agli algoritmi quell’affidabilità assoluta conferitegli da alcune scuole economiche, per prima da quella neoliberista; sono tanti quelli che reputano i risultati ottenuti come predisposti  con un intervento sul programma, usati per confermare tesi già prestabilite.  È poco noto ai più che economisti del calibro di Stiglitz e di Greenwald, prendendo a prestito le tesi macro-economiche di Arrow e Solow (altri premi nobel), hanno ampiamente dimostrato la necessità di una centralità dell’apprendimento nei processi economici. Un contesto produttivo  va indirizzato al learning by doing (imparare facendo), così, migliorano le competenze, si alza il livello qualitativo e aumenta la produzione; ciò favorirà l’aspetto ecologico del lavoro che si tradurrà in dinamiche costruttive e collaborative, all’interno dell’azienda e tra le aziende, di sana competitività del mondo del lavoro in tutte le sue espressioni.  In questi ultimi esempi riscontriamo le caratteristiche che sono le basi delle teorie economiche che rappresentano. La più evidente è quella della conoscenza, delle competenze, acquisite a vario titolo, come motore dell’economia. Anche le teorie neoliberiste prevedono l’importanza di queste risorse, la differenza sta nelle modalità e soprattutto nel calcolo della variabile tempi-costi; quest’ultima condiziona negativamente l’approccio e l’utilizzo che attua il neoliberismo. Per le teorie che tengono in grande considerazione lo sviluppo e il progresso sociale (neo-keynesiane, neo-marxiste, ecc.) le modalità utilizzate non possono ignorare le condizioni in cui opera la forza lavoro, devono garantire un equilibrio tra qualità e quantità della produzione. Mettono in conto che tali processi necessitano, prima di tutto, d’investimenti che migliorino le conoscenze e si predispongano  a farlo anche in una prospettiva futura. La scuola e la sanità diventano i settori trainanti e vincenti su cui investire. Per creare ricchezza e prospettive, per queste idee guide, non bisogna accelerare, risparmiare e creare profitto a breve, da accumulare. Affermano che gli investimenti creano profitti spalmati nel tempo, quello di cui ha bisogno un’economia che punta al rispetto dell’uomo (all’Essere) più che a ottenere alti profitti attraverso abili operazioni finanziarie (l’Avere), con tutti i danni che quest’ultima soluzione dimostra, tutti i giorni, di saper produrre.  La questione, anch’essa centrale, posta dalle teorie neoliberiste (e quelle da esse derivate) si può sintetizzare nell’allarme che lanciano quando affermano che è pericoloso fare investimenti a sostegno dello sviluppo e della spesa, pubblica e (anche quella privata deve rispondere ai requisiti del risparmio), sembra aver trovato un’applicazione differente qualche anno fa. E’ accaduto che a seguito della crisi mondiale apparsa nel 2007 le banche centrali hanno dovuto fare scelte cruciali per salvare dal baratro le loro economie. Negli Stati Uniti hanno scelto di fare una politica espansiva, di aumentare la liquidità stampando moneta per sostenere banche e altre forme d’iniziative economiche a partire dalle grandi aziende strategiche fino ad arrivare ai piccoli imprenditori. Lo stesso è avvenuto nel Regno Unito che, pur appartenendo all’Unione Europea aveva mantenuto il diritto a fare ricorso a questa possibilità di autodeterminazione di politica economica.  La strategia scelta dall’Unione Europea è stata differente, è stata individuata e percorsa la strada dell’austerity; in Italia, come si sa, abbiamo fatto i conti con la cura Monti. Quali sono state e sono tuttora le conseguenze dell’aver messo in atto questa soluzione appare evidente, almeno nel risultato. La rilevante diminuzione dei posti di lavoro e del potere d’acquisto medio: anche quelli che non sono degli addetti ai lavori, si riconoscono come gli indicatori di un insuccesso. Al contrario, si riscontra che gli Stati Uniti e il Regno Unito, non solo hanno evitato la banca rotta ma, negli ultimi dieci anni, hanno fortemente rilanciato le loro rispettive economie nazionali. Cosa che non è avvenuta nei paesi dell’Europa meridionale, in testa la Grecia seguita dall’Italia e dalla Spagna. In verità si sono rafforzati le posizioni e gli introiti di alcune Nazioni dell’UE, in particolare quelle dell’Europa del Nord: ognuno potrà documentarsi per scoprire se questo era tra gli obiettivi delle prime della classe (Germania, Olanda ecc.), se è stata la conseguenza inevitabile delle scelte adottate, che per le differenti economie nazionali hanno determinato altrettanti diversi risultati, o entrambe le cose. Quello che possiamo riscontrare è che si sono acuite le differenze tra stati che invece si erano dati l’obiettivo di collaborare affinché diminuissero, sempre nel rispetto delle singole culture. Tra i tanti interrogativi che mi pongo, ne scelgo alcuni da condividere con Voi. Il primo, come mai le Nazioni che per prime hanno messo in pratica le regole del neoliberismo, ad esempio gli Stati Uniti, per uscire dal tunnel nel quale erano entrate grazie alla grave crisi del 2007, le trasgrediscono platealmente e decidono di finanziarsi stampando moneta? Non avevano sempre affermato che quest’operazione era possibile solo in una fase espansiva dell’economia di una nazione, quando aumenta la sua ricchezza; che fatta in un momento di contrazione avrebbe affondato la nazione, determinato un default? Provo a ipotizzare una risposta, poiché, per prime dovevano aiutare le banche, quelle che avevano subito le perdite causate da operazioni  create da loro stesse, dai rami interni dedicati alle speculazioni  finanziarie. Pur avendo realizzato e diviso profitti adesso rischiavano (?) il fallimento e con esso, minacciavano, di creare danni irreversibili al sistema paese. Si può essere incoerenti, cambiare atteggiamento a casa propria e continuare a mantenere delle regole rigide e costrittive quando esse premettono di trarre vantaggi, casomai dai fallimenti, quelli certamente reali, dei tanti imprenditori e singoli cittadini: una volta in difficoltà non sono adeguatamente sostenuti, aiutati da quelle stesse banche. Che ve ne pare? Forse, per chiarirci meglio le idee dovremmo ascoltare con attenzione quanto vanno dicendo molti grandi economisti in ripetute occasioni e pubblicazioni. La macro-economia, come gli esempi ci hanno mostrato, potrebbe indicare percorsi strategici differenti che inevitabilmente determinerebbero altrettanto diversi scenari socio economici. Le scelte compiute dai governi di investire nei vari settori che promuovono e sostengono, a vario titolo, le attività economiche, rappresenteranno un importante indicatore di quale politica economica intendono perseguire. Le ipotesi operative per ottenere tali risultati sarebbero definite considerando la quantità dell’investimento e le tecnologie, anche attraverso un corretto utilizzo dei più aggiornati algoritmi, la produttività e l’impatto sociale. Previsioni che terrebbero conto di molteplici variabili, per alcune delle quali si potrebbe solo ipotizzare l’effetto che avrebbe sui risultati finali, in virtù dei mutabili comportamenti del mercato. Non sarà un caso che si conferiscono premi nobel a chi teorizza l’importanza che hanno le scelte dettate dall’irrazionalità ai fini dei risultati economici! Abbiamo anche compreso che queste incertezze, che sono connaturate all’economia, spesso sono strumentalizzate, amplificate da chi, per i propri tornaconti, specula su queste incognite del futuro. E se il futuro non portasse solo incognite negative, ma prospettasse anche possibili risultati positivi, perché costruttivi, la sfida per ognuno di conoscersi sempre di più, di tutto quello che dobbiamo ancora scoprire? Mi piace finire proponendo, riconsiderando quello stato d’animo, quelle emozioni, le considerazioni che si riscontravano, si coglievano nei racconti di tante persone durante il periodo iniziale della pandemia. ll comune denominatore che richiamò la mia attenzione dal primo momento, che si ritrovava in quasi tutti gli interventi, indipendentemente dal grado di acculturazione e di appartenenza sociale, era la considerazione sulla bellezza, sulla sacralità della Vita. Di lì a poco seguivano affermazioni sull’importanza della difesa della natura, dell’ambiente; analisi sugli errori, perpetuati dall’umanità, risultati dannosi e, perché no, la necessità di progettare interventi per inibire le fonti d’inquinamento atmosferico. Qualcuno si spingeva ancora oltre ipotizzando interventi in economia che migliorassero le condizioni e le modalità del lavoro e lasciassero più tempo per vivere le proprie passioni e tutto il buono che stavamo rischiando di perdere. Infine qualche “pazzo”, in realtà più di uno, iniziava a far presente che l’uomo sarebbe nato e si sarebbe evoluto, grazie alla mente di cui è dotato, nell’attesa di raggiungere uno stato di benessere, fisico e psichico, che si chiama “felicità”. Tutto questo non mi sembrava e tuttora non lo considero aleatorio, lontano dai reali desideri più profondi di molti di Noi, non era dettato solo dalla contingenza. Molte di queste agognate mete sarebbero, probabilmente, in parte o del tutto, raggiungibili, se sapremo riconoscere le migliori qualità del nostro Essere. Per farlo sembra che bisogni intraprendere un viaggio, per meglio dire il Viaggio dentro di Noi: da esso dipende tutto, quello che siamo e quello che facciamo! Allora, se non l’avete già fatto, vi ho fornito qualche valido motivo per partire? La risposta arriverà dai fatti.

One thought on “L’eterno dilemma tra avere o essere. Ecco perché la modernità è davanti allo stesso problema…

  1. Eccellente dissertazione che si
    snoda in forma chiara e ben articolata in pertinenti riflessioni sul tema trattato. In una società abituata alla globalizzazione e che spesso si smarrisce per la fluidità dei valori di riferimento, ritengo che possa essere una lettura
    interessante che propone adeguate riflessioni

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