
Flavio Parisi ha scritto una bella analisi su “il Post” che vale la pena riportare per intero sul rapporto tra il Giappone e un elemento primordiale: l’acqua. «Stando qui – annota – si ha la strana percezione che questo elemento non manchi mai, quasi fosse una risorsa pressoché infinita. Ogni sera tutti vogliono fare il bagno caldo, quindi a casa si riempie la vasca che verrà usata a turno dai membri della famiglia dopo una doccia completa perché è obbligatorio immergersi già completamente lavati. Che l’acqua non manchi si nota anche dal tipo di coltivazione più diffusa: le risaie inondate con un sistema di canaline e popolate da ranocchie, aironi e piccoli pesci. Come in un allineamento astrale fortuito, l’acqua è presente in dosi massicce anche negli altri suoi stati: un fatto poco noto è che il Giappone è il paese più nevoso del mondo»
Si vede subito dalle mappe: il Giappone è un paese circondato dall’acqua, un arcipelago. In questo non è così diverso dalla penisola italiana o dalla Grecia meridionale, ma il rapporto con l’acqua varia molto a seconda della civilizzazione che ogni gruppo umano sviluppa. Nel caso del Giappone, il rapporto che lega i suoi abitanti all’acqua è, direi, totalizzante; stando qui si ha la strana percezione che questo elemento non manchi mai, quasi fosse una risorsa pressoché infinita.
Ogni sera tutti vogliono fare il bagno caldo, quindi a casa si riempie la vasca che verrà usata a turno dai membri della famiglia dopo una doccia completa. È obbligatorio immergersi già completamente lavati. Entrare in vasca con la sporcizia della giornata, così come lavarsi con il sapone mentre si è in vasca, rappresentano per i giapponesi delle idee orrifiche: l’acqua del bagno deve rimanere pulita fino all’ultimo che la usa, poi si butta via. A un certo punto si pensò di usare quest’acqua di risulta per lavare i vestiti, quindi le lavatrici avevano un tubicino per succhiarla, ma mi pare che nessuno sia mai stato entusiasta dell’idea e così, all’acquisto dell’elettrodomestico, il tubicino viene messo in un armadio, nella busta degli accessori di cui non si sa che fare per essere ritrovato solo quando sarà ora di rottamarlo o perfino dopo, quando si faranno le grandi pulizie.


Che l’acqua in Giappone non manchi si nota anche dal tipo di coltivazione più diffusa: le risaie sono preferibilmente inondate con un sistema di canaline e popolate da ranocchie, aironi e piccoli pesci. In particolare le carpe sono tenute nei canali di acqua dolce, mentre i medaka (Oryzias latipes, i pesci del riso che in inglese sono chiamati proprio rice fish) da sempre vengono messi a popolare le risaie per combattere i parassiti. In Giappone i medaka sono considerati talmente importanti da essere stati messi a dimora in un acquario lanciato in orbita a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, dove sono anche riusciti a riprodursi.
Come in un allineamento astrale fortuito, l’acqua è presente in dosi massicce anche negli altri suoi stati: un fatto poco noto è che il Giappone è il paese più nevoso del mondo. In particolare, nella provincia di Aomori si accumulano regolarmente metri e metri di neve e ogni anno si vedono le foto di canyon profondi 4-5 metri scavati per liberare la strada su cui devono passare le macchine. Il nord dell’isola principale (Honshu) è la zona dove si trovano i produttori del sakè più buono del paese, per il semplice fatto che questa bevanda, a differenza del vino e similmente a birra e whisky, necessita dell’aggiunta di acqua. E l’acqua di fonte del nord è la più buona, l’orgoglio della gente di quelle zone.
Il pesce, oltre ad avere costantemente una qualità stellare quando è venduto e mangiato, è regolarmente presente nell’immaginario e nella mitologia di queste isole: i terremoti sono scatenati dal pesce gatto che riposa sonnacchioso sotto la terra abitata dagli umani, ma quando si muove provoca scossoni che generano disastri. Il mondo, per i giapponesi, fluttua, e così devono fare le persone, adattandosi a un ambiente sempre in trasformazione, pericoloso e provvisorio.
L’acqua è anche un pericolo e fonte di cataclismi, come si capisce dalla differenza di valore immobiliare delle zone di Tokyo. In alcune aree i prezzi dei terreni sono preoccupantemente bassi (rispetto al resto della città, non in senso assoluto) perché sono stati strappati alla laguna e il terreno di riporto sotto le costruzioni non è solido: il mare, l’acqua, minaccia di riprendersi tutto in poche ore, in caso di terremoto, maremoto o inondazione (come è successo il 10 marzo del 2011 quando, con il grande terremoto del Tōhoku, il terreno si è liquefatto all’istante).
Per proteggere la grande pianura del Kantō, dove sorgono Tokyo, Yokohama, Chiba e altri centri urbani in cui si raccolgono 43 milioni di persone – un terzo di tutto il paese – negli anni Novanta è stata progettata un’opera ingegneristica che definirei faraonica. La costruzione del “Canale di drenaggio sotterraneo esterno dell’area metropolitana” è iniziata nel 1992 e terminata nel 2006, e ha l’obiettivo di attenuare gli effetti potenzialmente disastrosi dell’eccesso di precipitazioni durante la stagione delle piogge, perché il Giappone ha anche una stagione che somiglia a quella monsonica dell’Asia meridionale, un mese abbondante in cui piove quasi ininterrottamente.
È significativo che il progetto sia partito negli anni Novanta, un’epoca in cui il surplus economico giapponese aveva riempito le casse pubbliche di denaro che sarebbe stato speso (anche) in grandi opere ingegneristiche per la collettività. Il punto, infatti, è che le catastrofi naturali avvengono: la questione non è il “se” ma il “quando” e il “come”. Non so se oggi, dopo lo scoppio della bolla economica, sarebbe possibile mettere in atto un’impresa così gigantesca.
È possibile visitare l’interno di questo canale di drenaggio. Per raggiungerlo dal centro di Tokyo ci vogliono circa due ore di treno, il biglietto costa 3000 Yen e la visita guidata è solo in lingua giapponese. La parte più impressionante è l’ultimo deposito di stoccaggio dell’acqua raccolta, una camera di compensazione per la pressione sotterranea in cui ci si trova a 22 metri di profondità, circondati da 59 pilastri alti 7 metri, in una sorta di spazio iniziatico che fa pensare a luoghi di culti segreti, catacombe paleocristiane o mitrei, dove si ritrovavano in segreto i seguaci di Mitra e altre divinità dello zoroastrismo. Ma la dimensione del tutto fa anche pensare all’esaltazione di tecnica ingegneristica e industria pesante, come in una rievocazione fuori tempo del positivismo novecentesco, aggiornato da un motore, vicino per potenza a quelli degli aerei di linea, che fa defluire l’acqua in eccesso pompandola nei fiumi.
Tornati a Tokyo si nota (almeno a me è capitato così) che l’ingegneria idraulica ha dato i nomi alle stazioni della città: “Suidōbashi”, che significa ponte dell’acquedotto, è nel centro della città, “Ochanomizu”, l’acqua per il tè, una zona appoggiata sulle rive del canale artificiale Kanda, tributario del fiume Sumida, che a sua volta dà il titolo a una delle pièce di teatro Nō più famose e messe in scena, mi viene in mente mentre cammino nei quartieri popolari della città punteggiati da pompe manuali con cui estrarre l’acqua dal sottosuolo in caso di emergenza.
Di acqua onnipervasiva e Tokyo io e Matteo Bordone parleremo nella prima puntata del podcast del Post in uscita il 27 gennaio. Se vi va, provate ad ascoltarlo e immaginate un vostro, personale, “Viaggio a Tokyo”.