La storia è finita. Non proprio. Nonostante più di un libro abbia azzardato una previsione che sembrava una sciagura. Tutta colpa di Fukuyama soprattutto. Ma non solo. Intanto «il povero – come lo si definisce sulla Treccani – Francis Fukuyama vanta il poco invidiabile primato di autore più vituperato ed allo stesso tempo meno letto degli ultimi anni. Al centro del suo celeberrimo articolo del 1989 (e del libro che ne seguì, nel tentativo di chiarificare quanto i suoi critici avevano evidentemente travisato) non vi era, infatti, la tesi secondo la quale con l’avvento della fine della storia – ovvero il tracollo del socialismo reale e l’egemonia incontrastata della (neo)liberal democrazia a guida americana – non sarebbe più successo nulla, e nemmeno che ogni società del globo si sarebbe uniformata al modello statunitense (la MacDonaldizzazione tanto temuta da, miopi, critici della globalizzazione). Intriso di hegelismo com’era, Fukuyama implicava in realtà qualcosa di molto più profondo, ovvero la fine del processo dialettico di lotta fra diverse visioni del mondo e per la libertà: da qui il tono a conti fatti tutt’altro che trionfalistico del volume. 35 anni fa, uno scienziato politico relativamente sconosciuto, Francis Fukuyama, appunto, pubblicò un saggio in una rivista di nicchia di Washington dal titolo The National Interest. Il saggio, “The End of History?”, lo ha reso una celebrità. Con esso, Fukuyama sosteneva che stessimo sperimentando “il punto di arrivo dell’evoluzione ideologica e l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale, come forma definitiva del governo umano.” Il trionfo “dell’idea occidentale” sarebbe stato dimostrato dalla morte di tutti i concorrenti ideologici del liberalismo». Ma è stato realmente così? Molte cose sembrano smentire l’azzardo di una previsione molto audace. Ecco perché…
La crisi finanziaria globale del 2008 prima, l’elezione di Trump e la Brexit circa un decennio dopo (la ricaduta politica dei sintomi finanziari dell’accartocciarsi dell’ordine neoliberista sulle proprie contraddizioni interne) ed infine la pandemia da Sars-Cov-2, la nemesi biologica di quella visione, se non del mondo, di certo della politica e della società, la fine della storia è giunta al capolinea, benché, fatto curioso e degno di analisi, la storia – come la intendevano Fukuyama, il suo maestro Alexandre Kojève, e l’ispiratore di entrambi, vale a dire Hegel – non sia ancora ripartita come si sottolinea in Treccani. Su questa scia nel 2022 Alex Hochuli, George Hoare, Philip Cunliffe hanno dato alle stampe La fine della fine della storia. Lo strano ritorno della politica nel XXI secolo, TLON, Milano, 2022, pp. 280, di fatto il prosieguo e nello stesso tempo la smentita di quel che Fukuyama previse poco prima.
Nel testo di Alex Hochuli, George Hoare, Philip Cunliffe, facendo seguito ad una succinta ma cristallina introduzione, nella quale in buona sostanza si punta il dito all’imperatore nudo sostenendo che l’odierno, desolante, stato di salute della militanza politica (radicale) di sinistra sia il frutto della rinuncia di quest’ultima a fare politica, in primo luogo entro i rispettivi confini nazionali, delegando gli affari correnti ad esperti (bramini dell’intellettualità, nella formula sferzante di Thomas Piketty) cooptati nei ranghi dell’ortodossia neoliberista – le riforme con il pilota automatico –, il secondo capitolo approfondisce il tema da cui siamo partiti anche noi: in che modo la fine della storia è giunta alla sua conclusione e perché un evento di questa portata non abbia (ancora) avuto come conseguenza il riattivarsi della dialettica politica (diciamolo una buona volta: della lotta di classe) e dunque con essa della storia stessa.
Se la storia non ha ancora fatto ritorno, che dire della politica? Ecco l’oggetto d’indagine del 3 capitolo. Con l’assunto di fondo è che durante l’epoca della fine della storia (grosso modo 1989-2008) la politica sia stata negata attraverso una strategia che gli autori chiamano di depoliticizzazione post-politica: da Thatcher e Reagan a Blair e Clinton con il suo sassofono, in poche parole. Il risultato di questa trasformazione, caratterizzata da una narcotica, scientemente indotta e consapevolmente perseguita, apatia della e nell’opinione pubblica tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila, può essere identificato nell’esplosione di rabbia che informa la politica contemporanea e che gli autori definiscono antipolitica, ovvero il rifiuto della classe dirigente e del suo piglio gestionale al governo della società. Opponendo dissenso (o divisione) al consenso, le maggioranze di larghe intese, l’antipolitica, paradossalmente e non senza pericolose implicazioni, riporta la politica al centro della scena.
Dobbiamo così – ci si chiede nel testo – dedurre, a conti fatti, che dopo trent’anni di coma la politica sia infine tornata? Forse, ma lo è, se lo è, in forme quanto meno bizzarre. La trasformazione dello spettro ideologico e dei conseguenti allineamenti di classe è oggetto di studio nell’ultimo capitolo (8) di questo strepitoso volumetto. Meno analitiche e più speculative, ma non per questo meno interessanti, le ultime pagine del saggio offrono una prognosi di come il mondo all’indomani del Covid-19 potrebbe polarizzarsi politicamente. Nel vuoto pneumatico apertosi dal ripudio del neoliberismo tradizionalmente inteso, tendenze corporativiste di stampo primo novecentesco rialzano baldanzosamente la testa. Stanti così le cose, è probabile, ironia della (fine della) storia che le socialdemocrazie (si prenda il caso della Svezia, sull’orlo di un’esondazione di estrema destra) porteranno infine a termine il proprio suicidio assistito aggrappandosi con le unghie e con i denti alla difesa di qualche vestigia del progetto neoliberale, specialmente sul fronte politico e culturale. Nel frattempo, sul versante destro dello spettro, si consolideranno forme di governo improntate al carisma dell’uomo forte, alla xenofobia e ad un malthusianesimo le cui conseguenze pratiche potrebbero rivelarsi particolarmente disturbanti. Che cosa rimane, o cosa si preannuncia, allora, della politica popolare, della classe lavoratrice (detto fuori dai denti: rivoluzionaria) nei decenni che verranno? Fare pronostici è difficile, ma la diagnosi non lascia scampo. La posta in palio è sempre più alta ed è ormai imperativo lasciarsi alle spalle un’epoca in cui la gente rimane a casa, la politica è gestita da remoto e la classe dirigente passa da una riunione a Davos a delle cene eleganti (vigano o meno misure di quarantena). Va da sé che questo implichi, a voler essere prudenti, un ripensamento radicale di cosa – di chi – sia e di che cosa voglia il proletariato nel XXI secolo. Se non altro, la pandemia ha fatto giustizia dell’ordine stabilito negli ultimi trent’anni, dimostrando che è possibile fare a meno degli amministratori delegati ma non dei cuochi e degli spazzini (o dei fattorini di Amazon). Senza produzione (dunque plusvalore, dunque lavoratori) non è solo l’economia a collassare, ma la società in quanto tale. Questo dimostra, concludono gli autori (p. 159) dove si annidi ancora il potere e chi tenga davvero il coltello dalla parte del manico. Si tratta solo, per dir così, di decidersi ad usarlo rigettando la politica della paura su cui la retorica della responsabilità in epoca pandemica si è basata e recuperare il potenziale rivoluzionario di concetti come interesse di classe (collettivo) e autonomia. Lungi dall’essere finita, forse, la storia deve, e può, ancora (ri)cominciare.
Nel frattempo Massimiliano Valerii già nel 2019, l’anno in cui ricorreva il trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino riportava l’attenzione sul testo di Fukuyama. «Con ottimismo e ingenuità – scrisse – su quelle macerie celebrammo la “fine della storia”, giunta a compimento con il trionfo delle democrazie liberali e del capitalismo, con il crollo rovinoso dei regimi comunisti e l’armistizio della guerra fredda, secondo un progresso che credevamo essere lineare e senza contraddizioni. Ma adesso ci sembra di sporgerci su una nuova frattura della storia. Siamo davvero proiettati in un salto d’epoca? Siamo alla fine della “fine della storia”? Il libro di Francis Fukuyama sulla “fine della storia” è del 1992 (ma era stato anticipato da un articolo che il politologo americano aveva pubblicato sulla rivista National Interest proprio nel 1989). Divenne rapidamente un best-seller internazionale, tradotto in dozzine di paesi in tutto il mondo. Ebbe un grande successo perché coglieva appieno lo spirito del tempo. Fu osannato da destra come un’apologia del liberismo, che si affermava incontrastato a livello planetario. E suscitò indignazione e infinite polemiche tra gli intellettuali di sinistra, alle prese con la difficile metabolizzazione del lutto per il fallimento dell’ideologia socialista. Poi, nel 2005, è la volta del saggio di Thomas Friedman sul “mondo piatto”. Lo leggemmo convinti che internet e la rivoluzione tecnologica avrebbero infranto per sempre le pareti spaziali, temporali e culturali che dividevano i paesi del pianeta, che mai più sarebbero stati distanti tra loro come in passato. Il destino appariva segnato, il cammino predefinito secondo necessità. Infine, la copertina dell’Economist nel gennaio di quest’anno titola: «Slowbalisation».
Il riferimento è alla fase di crisi della globalizzazione che stiamo vivendo e al raffreddamento della congiuntura internazionale, con il rallentamento del commercio mondiale e gli investimenti esteri in calo, la «guerra dei dazi», il ritorno del sovranismo, dei confini sigillati degli Stati nazionali, delle frontiere impermeabili in luogo di quelle porose della globalizzazione. Nell’arco di questi trent’anni (1989-2019), dopo la grande crisi e le sue conseguenze, si è consumato il falò delle vanità. Comincia una nuova storia dopo la fine della storia? Non era un’idea originale di Fukuyama, quella della fine della storia. L’aveva ripresa dal filosofo russo di nascita, naturalizzato francese, Alexandre Kojève. Il quale, tra il 1933 e il 1939, aveva tenuto un leggendario seminario sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel all’École Pratique des Hautes Études di Parigi di fronte a un uditorio d’eccezione. C’erano André Breton, Georges Bataille, Raymond Queneau, Maurice Merleau-Ponty, Jacques Lacan, Raymond Aron, Éric Weil. Secondo Kojève il desiderio umano è l’innesco del processo di autocoscienza e dà origine alla storia. Desiderare significa avvertire la «presenza di un’assenza».
«Il desiderio rende l’uomo inquieto e lo spinge all’azione ». E la storia è lotta, violenza, rivoli di sangue ? «un banco di macellaio», aveva detto Hegel. La storia termina con la Rivoluzione francese (quando si afferma il principio politico universale della libertà e dell’uguaglianza di tutti gli individui) e con Napoleone (che diffonde il codice civile). Per Kojève la sfilata delle truppe di Bonaparte sotto le finestre di Hegel al termine della battaglia di Jena del 1806, quando la Grande Armata sconfigge l’esercito della vecchia Prussia, segna il compimento della ragione filosofica e la fine della storia. Scompare cioè l’uomo inteso come soggetto storico in lotta per il riconoscimento. E ora l’umanità si dirige verso la formazione di quello che Kojève chiamò «Stato universale e omogeneo », necessariamente transnazionale, organizzato in una società senza classi, formata da individui post-storici sottratti alla logica del desiderio. Gli avvenimenti successivi (persino le due guerre mondiali, la rivoluzione russa e quella cinese) non saranno altro che la propagazione della fine della storia nel resto del mondo: l’«allineamento delle province». Kojève aveva in qualche modo previsto la globalizzazione. Oggi però abbiamo la sensazione di trovarci di fronte a un arresto di quel processo. Ma se la storia riparte, riecheggiano le urla della battaglia, il clangore delle armi, il passo assordante dei cortei cruenti dei rivoluzionari, quando una nuova epoca inghiotte l’epoca precedente. La lezione che possiamo trarre è che le moderne democrazie liberali (pienamente compiute alla “fine della storia”) hanno bisogno dello sviluppo economico, perché i fattori fondamentali su cui si sorreggono ? accesso di massa ai consumi, istruzione universale, uguaglianza delle opportunità, superamento delle rigide distinzioni di classe attraverso i processi di mobilità sociale, stratificazione del ceto medio ? dipendono dalla crescita. Che crea una uguaglianza di fatto, prima ancora che se ne stabilisca una formale attraverso l’estensione dei diritti sociali e civili a chi ne è privo. Se la crescita si ferma, le democrazie liberali vacillano. E a quel punto la storia si rimette in moto con tutto il suo significato tragico. È un monito da tenere a mente nell’Italia inquieta imprigionata nel limbo della crescita da “zero virgola”.