L’immaginazione attiva nella psicologia analitica di Carl Gustav Jung

L’immaginazione attiva, insieme al processo di individuazione, sono i due pilastri della psicologia junghiana. Jung ha utilizzato il metodo dell’immaginazione attiva come mezzo ideale per un confronto con l’inconscio, molto utile nei casi in cui il conflitto tra contenuti consci ed inconsci abbia raggiunto un punto critico. In questo caso la razionalità vale ben poco per giungere ad una soluzione.


di francesco martinelli


È usata poco perché non vale per tutti i casi, infatti siccome la carica energetica  dei contenuti inconsci è molto forte, può accadere che essa allaghi l’io e la coscienza determinando uno stato psicotico. Si tratta della immaginazione attiva e nei confronti di questo metodo poi vi è chi lo considera alla stregua di un processo magico, poiché esso nasce dagli studi alchemici di Jung. In effetti è vero che l’immaginazione attiva non è una strada da tutti percorribile, bisogna infatti stare attenti a valutare se il soggetto ha una forza psichica tale da reggere il confronto con l’inconscio. Essa andrebbe usata solo se veramente necessaria. Un’allieva di Jung, che ha scritto, secondo me, la sua  più bella biografia, Barbara Hannah, afferma di aver constatato l’influenza guaritrice di tale metodo sia su di sé che sugli altri.

Jung, come Freud,  riteneva che lo studio sui sogni  fosse la via regale per arrivare a capire le dinamiche dell’inconscio, però egli diceva che a volte era veramente difficile comprenderli, sia per il paziente che per l’analista, allora era necessario utilizzare un altro strumento per potersi rapportare con l’inconscio. Nell’ultimo periodo della sua vita arrivò alla conclusione che per mantenere vivo e vitale il rapporto tra il conscio e l’inconscio era necessario utilizzare l’immaginazione attiva. Jung la paragonava, secondo me a torto, alle tecniche di meditazione orientale. Perché dico a torto? Ecco un esempio di meditazione tantrica.

“Mantra: Ang, Hring, Krong, Hangsah, So’ang.

O Ambika, dopo aver così purificato gli elementi il discepolo con la mente ben disciplinata e intent alla natura della Devi, faccia Mantrikanyasa….ogni lettera deve venire pronunciata separatamente via via che viene collocata nelle diverse parti del corpo…dopo averle collocate sulla faccia , sulla fronte,  sugli occhi, sulle orecchie, sulle guance…”. Ogni parte del corpo va visualizzata chiaramente con gli occhi chiusi, come se si vedesse con gli occhi aperti e senza distrazioni.  Stesse operazioni vengono eseguite dalla meditazione tibetana , utilizzando anche esercizi di respirazione. Questo solo per dare un’idea della complessità della meditazione orientale .

Tornando al nostro discorso, Barbara Hannah afferma anche che L’immaginazione attiva è la pietra di paragone per assicurarsi se una persona vuole effettivamente diventare indipendente grazie all’analisi oppure no.  Capita spesso che i pazienti si rifiutino di sottoporsi a tale metodo perché ritenuto sfiancante. Essa richiede sforzo, umiltà e coraggio.  L’io deve essere in grado di stare in dialogo col proprio inconscio , ascoltando, interrogando e rispondendo, anche se la cosa inizialmente può sembrare assurda.

L’umiltà è il giusto modo per incominciare un rapporto corretto con l’inconscio. Marie-Louise von Franz, allieva diretta di Jung, ci fa sapere che il metodo dell’immaginazione attiva consta di quattro momenti: 

  1. Il primo passo è quello di svuotare la mente , ella lo paragona alla pratica dello Zen, si rifà ad un detto di un maestro Zen che dice: “La mente folle non si arresta mai, se si arresta è la bodhi, cioè l’illuminazione”, addirittura lo paragona alla tecnica del Ko’an, che è un problema paradossale su cui meditare  fino a quando non si raggiunge il Satori, cioè l’illuminazione,
  2. La seconda parte consiste nel permettere ad una immagine inconscia di entrare nella mente e porre ad essa attenzione. Qui afferma che al contrario delle pratiche orientali, l’immagine viene accolta e non respinta. Su di essa  va diretta  la nostra attenzione, evitando due errori, non ci si deve concentrare troppo su di essa, e nemmeno troppo poco. Questo è lo stadio dell’immaginazione passiva.
  3. La terza fase è quella di fornire una forma di espressione all’immagine fantastica, tramite la scrittura, la pittura, la scultura, la musica e la danza. Qui non vado oltre perché si arriva nel campo esoterico. Anche in questa fase bisogna evitare due errori, uno è quello di voler sottoporre la fantasia ad una esagerata elaborazione estetica, facendola diventare un’opera d’arte, trascurando il messaggio che vuole darci, l’altro errore è l’esatto contrario: in tal caso il contenuto non si rivela nella sua totalità. Questo è un errore tipico delle persone intuitive e razionali.
  4. Quest’ultimo stadio è il più importante, quello che non è presente nelle odierne tecniche immaginative psicologiche. In questa fase è necessario che ci sia un confronto etico con ciò che è stato prodotto nelle fasi precedenti. Qui è lo stesso Jung  a farci porre attenzione ad un errore che potrebbe essere fatale, quello che si agisca con un io “fittizio”, e non con l’io reale.

È importante notare che le persone dissociate , quelle che potrebbero avere una psicosi latente e i borderline devono evitare la pratica dell’immaginazione attiva. Secondo Jung e la von Franz tutte le pratiche analitiche si fermano al terzo stadio. Quando si usa tale procedimento, bisogna intervenire il meno possibile, anche se il paziente si blocca non va aiutato è fondamentale che il soggetto tiri fuori da solo le proprie capacità. Quando è consigliabile l’immaginazione attiva? Quando l’inconscio sta straripando in fantasie, quando vi è un’attività onirica eccessiva, quando i sogni troppo pochi o i suoi contenuti sono incomprensibili, quando uno sente di essere sotto influenze “malefiche”, quando ci si ritrova sempre n in una situazione bloccata.

È indispensabile comprendere che questo metodo non deve mai rappresentare un fuga da realtà, anzi deve essere uno sprone ad affrontarla con piena consapevolezza. La conoscenza è importante che si trasformi in obbligo morale, altrimenti vi è il rischio di cadere preda del pèrimcipio della volontà di potenza. Jung dopo trent’anni di pratica con l’immaginazione attiva sia sui pazienti che su se stesso, giunse alla conclusione che se si ha una buona consapevolezza la si può praticare. Verso la fine della sua vita si dispiaceva del fatto che fosse poco praticata.

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