di francesco de rosa |
Di Rosario Livatino colpiva la sua fede in Dio e nella giustizia. Il suo viso giovane ma anche la determinazione con cui ha combattuto, ancora giovane, le trame mafiose della sua Sicilia. Perché la differenza tra legalità e illegalità è nelle cose che si fanno, nella capacità di vocare la propria vita alla giustizia e solo a quella. Una differenza che vedi subito. Ci sono e ci saranno molte persone (politici innanzitutto) in Sicilia come altrove che parlano e parleranno di legalità, giustizia, rispetto ma solo pochissimi fanno e faranno ciò che dicono. La gran parte fa e farà esattamente il contrario.
Il giudice Rosario Livatino aveva solo 38 anni quando la mattina del 21 settembre 1990 venne inseguito e ucciso lungo la strada statale ss640 che da Agrigento porta a Caltanissetta. L’auto venne speronata. Livatino già ferito ad una spalla tentò la fuga correndo per i campi, ma venne raggiunto e poi ucciso con un colpo di pistola in faccia.Il giudice era da solo, aveva rifiutato la scorta proprio perché voleva proteggere altre vite, e viaggiava a bordo della sua Ford Fiesta rossa. Stava andando al lavoro, al tribunale di Agrigento, quando fu affiancato dall’auto e da una moto dei suoi assassini.Il giudice Rosario Livatino era nato a Canicattì il 3 ottobre 1952. Era stato uno studente brillante, aveva seguito le orme del padre Vincenzo Livatino. Si era laureato con lode all’età di 22 anni presso la facoltà di Giurisprudenza a Palermo. Poi vinse il concorso.
Da qui divenne giudice a latere presso il tribunale di Agrigento.Otto mesi dopo la morte del giovane giudice, con senso critico, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga definì «giudici ragazzini» una serie di magistrati neofiti impegnati nella lotta alla mafia. Dodici anni dopo l’assassinio mafioso, Cossiga smentì che quelle affermazioni fossero da riferirsi a Livatino, che invece definì “eroe” e “santo”. Papa Giovanni Paolo II lo definì invece «martire della giustizia e indirettamente della fede».