Le gesta di Tigran Hamasyan a Ravello 2018

Tigran Hamasyan si conferma come uno dei migliori pianisti contemporanei. Ma occorre intendersi su cosa si intenda per ‘contemporaneo’. Il futuro del pianoforte non risiede certo nella riproduzione dei suoi repertori, ormai cristallizzata o talmente dissipata da giungere ad eccessi di tale dilatazione (Lang Lang) da inciampare al confronto dei grandi del passato. Qualcosa di non dissimile sta avvenendo ormai anche per il jazz, considerata la resistenza al tempo di alcune pietre miliari (si pensi a Keith Jarrett, ma anche a Brad Mehldau, e altri). Se oggi si vuole declinare al presente la parola ‘contemporaneo’ (va precisato, perché alcuni maliziosamente relegano il ‘contemporaneo’ ad alcuni decenni fa, confondendolo con l’apice dello sperimentale, a sua volta rovinosamente precipitato nello ‘sperimentalistico’), se dunque uno davvero voglia guardare con acutezza ciò che sta accadendo, non può che formulare delle ipotesi. La prima: ci sarà un ritorno al passato nella scelta dei codici interpretativi: il segno, per quel che vale, verrà nuovamente messo al centro, come se si trattasse di una sacca di resistenza (simile al ritorno al vinile, dopo il crollo del cd propiziato dal cloud digitale). La seconda: ci sarà una deliberata alterazione delle opere di notazione, ivi compresa quella estratta dalle grandi interpretazioni storiche di jazzisti (come quella realizzata sul celebre concerto di Köln di Jarrett). La terza, più probabile o affiancata alle altre due: il pianoforte del futuro sarà sempre più infragenerico, cioè mescolerà stilemi provenienti da generi e modalità interpretative tratte da luoghi, epoche e persino strumenti di provenienza differenti (una ‘evoluzione’ della pratica comune del ‘far proprio’ in auge fin dal Settecento e nota come ‘trascrizione’: prendere brani per uno strumento, magari il clavicembalo e trascriverli per pianoforte, innovando in tal modo, giocoforza, lo stile esecutivo di quest’ultimo).

Tigran Hamasyan si pone a mio avviso come uno dei campioni di questo terzo filone: nato in Armenia, trasferitosi in America dopo un rovinoso terremoto, rientrato ad Erevan, il musicista ha oggi trentuno anni, e ha già al suo attivo numerosi dischi e tournée di successo. Tra i suoi ammiratori, Chick Corea, Herbie Hancock e il grande ‘mescolatore estetico’ Manfred Eicher. In esclusiva italiana, a Ravello, per l’edizione numero 66 del Festival, ha tenuto un recital in solo piano durato circa un’ora e mezza, donandosi con generosità e umiltà a un pubblico per la verità non numeroso. Tigran usa uno Steinway amplificato. Ha poi un ulteriore microfono per la voce col quale sovente disegna una texture, sottile e raffinata, di ritmiche vocali. Pochi effetti luce, forse un po’ di riverbero quando si produce, in un paio di brani, in affascinanti nenie vocali che paiono provenire da una lontananza arcaica, interpuntate però da un pianismo molto nitido, sempre controllato anche nei bassi, negli incroci tra le mani. Punti di ulteriore crescita: il tocco straordinario ha forse in Tigran Hamasyan il suo pendant in un controllo eccessivo delle dinamiche. Dal vivo, talvolta, un suono più ‘timbrico’ e meno edulcorato farebbe esplodere pianoforte e platea (peraltro, l’amplificazione risultava ‘intubata’ nei bassi, e quando s’è alzata la brezza tipica della splendida location, a Villa Rufolo, i microfoni ne hanno raccolto il tipico sottofondo). In un paio di momenti, qualche tema subisce leggere sbavature. Un pianismo simile si presta a molte associazioni: un precedente in Aziza Mustafa Zadeh, negli abbellimenti tipici della musica armena e azera (talvolta, la musica può unire laddove la politica divide), svolti prevalentemente in temi affidati alla mano destra, con la precisazione che le composizioni di Hamasyan sono a parer nostro più raffinate e mostrano maggiore permeabilità a linguaggi di provenienza anche rock; il minimalismo, forse la Penguin Cafe Orchestra, come nello splendido “Etude No 1”, esempio di virtuosismo ritmico e dinamico (la mano sinistra continua a lasciar percepire l’ostinato, anche dopo l’entrata delle variazioni ritmiche), ma al contempo anche  passo avanti sui “Children’s song” di Corea. Associazioni letterarie, come il malinconico “Markos and Markos”, ispirato al quasi omonimo componimento di Zahrat, poeta armeno scomparso nel 2007. In “Lilac” s’avverte la presenza di Erik Satie, quello delle Gymnopédies e della poco nota Gnossienne No. 5 (giochi del tema). Sempre Satie, forse Gurdjieff e tanta Armenia rilevano nei giochi tematici arricchiti d’acciaccature di due o tre note in alternanza di quarta: tutti stilemi che confermano la caratterizzazione infragenerica, attraverso una ‘cattura’ (appropriazione) priva di retorica, e anzi autenticamente sentita: francamente bellissima. Non manca, come bis, la titletrack dell’album che dà nome alla performance: “Ancient Observer”, momento convincente e non privo di virtuosismo.

Girolamo De Simone

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