a cura dell’ispi
Mentre l’esercito russo invade l’Ucraina ed entra a Kiev, ieri Europa e Usa hanno adottato nuove sanzioni contro Mosca. Sanzioni che Joe Biden e Ursula von der Leyen hanno definito “senza precedenti”. Le sanzioni economiche sono l’unica arma a cui si è detto disposto a ricorrere l’Occidente, che da mesi ha escluso la difesa militare di Kiev dalle opzioni percorribili.
Ma le sanzioni hanno una storia travagliata. Funzionano poco, solo se sono forti e imposte all’unisono da molti paesi del mondo, e se chi le subisce non è un nemico determinato a resistere. In questo terzo numero di ISPI DataLab proviamo a fare chiarezza su quanto contino le sanzioni, e inoltre ci chiediamo: a che punto siamo sulla “scala” delle sanzioni possibili? Quanto potrebbe soffrirne Mosca? E cosa rischia l’Occidente?
Le sanzioni funzionano? Poco, e solo a certe particolari condizioni. Attingendo all’esperienza di oltre un secolo di storia, dalla Prima guerra mondiale ai giorni nostri, si scopre che le sanzioni economiche hanno raggiunto il loro obiettivo solo un terzo delle volte. E ancora meno spesso (il 25%) quando lo scopo era quello di dissuadere o far cessare azioni militari. Le cose si fanno ancora più complicate se il paese sanzionato non è democratico (come la Russia): in quel caso la probabilità che abbiano successo crolla all’11%.
D’altronde di tutto questo abbiamo diversi esempi nella storia, che restano veri tutt’oggi. Proprio in questi mesi compie 60 anni l’inizio dell’embargo americano a Cuba, che mai riuscì a convincere i cubani a deporre Castro e i suoi eredi. L’Iran degli ayatollah è sotto sanzioni dal 1979, e lo è stato per otto anni non consecutivi sul nucleare (anche se, almeno su questo, sembra che Washington e Teheran siano vicini a un accordo). E poi le sanzioni contro il nucleare e i test missilistici della Corea del Nord (16 anni), per non parlare degli 8 anni di sanzioni contro Maduro in Venezuela (ancora al potere) e della stessa Russia dopo il primo conflitto russo-ucraino del 2014.
Insomma, la strada è in salita.
Molto dell’efficacia delle sanzioni dipende dalla loro globalità e dalla loro forza, a sua volta legata al target da colpire prescelto. In questo senso, le sanzioni alla Russia sono un esempio perfetto.
Sono “globali”? No: a oggi quasi solo i paesi del “campo occidentale” (dagli Usa all’Ue, dal Regno Unito al Giappone, dal Canada all’Australia) ha imposto sanzioni, ma si nota tra gli altri l’assenza di altri grandi paesi come Cina, India o Brasile tra i paesi sanzionatori.
Sono “forti”? Dipende. Nel 2014 il campo occidentale optò per sanzioni minori dirette a funzionari russi e oligarchi vicini a Putin, puniti con il congelamento dei loro beni o il divieto di viaggiare nei paesi sanzionatori. Misure non particolarmente efficaci a giudicare da come si è ora evoluta la situazione in Ucraina.
Di fronte alla nuova aggressione russa, Stati Uniti, UE e UK hanno provato ad alzare il tiro già martedì: bloccando i beni di alcune (medio-piccole) banche russe e vietando a Mosca l’accesso ai mercati finanziari e di capitali occidentali per rendere più complicato il finanziamento del suo debito sovrano. Non è bastato a dissuadere Putin da un attacco su larga scala.
Così ieri il pugno è stato più duro: si sono aggiunte sanzioni a banche più grandi (anche se oggi si attende di capire cosa farà l’Europa) e limiti alle esportazioni per tecnologie e settori sensibili. A causa della riluttanza di un gran numero di paesi europei, mancano però all’appello sia l’esclusione della Russia dal sistema SWIFT (che colpirebbe sia Mosca, sia i paesi europei rendendo molto più difficili le transazioni finanziarie), sia sanzioni Ue nel settore energetico che non siano meramente simboliche.
Malgrado ancora non si spingano “fino in fondo”, le nuove sanzioni annunciate ieri dagli alleati occidentali sono molto più forti rispetto a quelle del 2014. Già le sanzioni di otto anni fa, comunque, avevano arrecato danni piuttosto significativi all’economia russa: si stima che nel 2017 il PIL russo fosse del 2,3% più piccolo rispetto a quanto avrebbe potuto essere nel caso le sanzioni non fossero state imposte.
Diversamente, dalle sanzioni del 2014 gli alleati NATO hanno subito quasi sempre danni molto più ridotti. In particolare i “grandi”: si andava da un –0,6% punti di PIL della Germania a un danno sostanzialmente nullo per gli Stati Uniti. Nel mezzo, Italia e Francia erano appaiate a –0,2%, ovvero circa un decimo rispetto all’effetto avvertito dalla Russia.
Come mostrato dal grafico, tuttavia, la necessità di agire in maniera coordinata e forte contro Mosca si scontra con la quasi sicurezza che il contraccolpo nei confronti dei paesi sanzionatori sia asimmetrico. E questo apre a spazi di dissenso tra gli alleati.
Questo grafico rappresenta plasticamente proprio la distanza tra Paesi che sulla carta, e sino al momento, hanno sempre agito insieme nell’imporre sanzioni nei confronti di Mosca. Sull’asse orizzontale si trova il nostro indice di vulnerabilità energetica, che abbiamo costruito e presentato nel primo numero del DataLab e che varia da 1 a 31. Su quello verticale, invece, utilizziamo la quota delle esportazioni di ciascun paese che si dirige verso la Russia pesata per il PIL nazionale come misura della vulnerabilità a sanzioni economiche (per l’Italia, per esempio, l’export verso la Russia “pesa” per lo 0,43% del PIL).
In questo modo, in alto a destra è possibile notare i paesi maggiormente esposti sia agli effetti delle sanzioni verso Mosca, sia a possibili interruzioni di forniture di gas dalla Russia (effetto di sanzioni o di decisioni unilaterali). In basso a sinistra, invece, i paesi meno esposti. Tra questi ultimi troviamo gli Stati Uniti, che corrono effettivamente pochissimi rischi dall’imposizione di sanzioni alla Russia. Tra i paesi più esposti troviamo invece proprio l’Italia, assieme alla Germania (Roma più vulnerabile sul fronte energia, Berlino più su quello economico), due dei paesi che più si erano dimostrati riluttanti a imporre sanzioni contro la Russia. Insieme a loro troviamo anche l’Ungheria, che non soltanto tende a essere più vicina a Mosca (Orban è amico di Putin), ma rischia anche di essere uno dei paesi più penalizzati dall’imposizione delle sanzioni.
È naturale dunque chiedersi se, all’interno di quello che appare come un fronte compatto in risposta all’invasione russa, non si stiano già per aprire alcune fratture. Fratture che potrebbero rendere più difficile l’adozione di eventuali misure ancora più restrittive, o la loro prosecuzione nel tempo.
Anche se la dipendenza energetica europea da Mosca nel corso dell’ultimo decennio è persino aumentata, lo stesso non si può dire dal punto di vista commerciale. Negli anni successivi all’imposizione delle sanzioni contro la Russia a causa del conflitto russo-ucraino del 2014, i paesi UE hanno velocemente ridotto le proprie relazioni commerciali con Mosca.
Il peso della Russia nelle esportazioni dell’Unione Europea è infatti diminuito dal 2,7% del 2013 all’1,6% del 2020. Un calo di quasi il 40% dovuto sia all’effetto delle sanzioni commerciali contro Mosca, sia alla volontà di essere meno esposti economicamente a eventuali nuovi cicli di sanzioni.
Guardando ai singoli Stati Membri, il peso della Russia sulle esportazioni si è circa dimezzato più o meno ovunque e ora ammonta a meno del 2% in tutte le cinque principali economie europee. Anche negli Stati Uniti osserviamo lo stesso trend, con la differenza che la Russia contava già nel 2013 meno dell’1% come destinazione dei prodotti americani.
Nel frattempo, nemmeno Mosca è rimasta con le mani in mano: a partire dal 2014 sono state implementate politiche fiscali e monetarie volte a rendere l’economia russa più autarchica, e quindi meno dipendente dal dollaro e dai capitali occidentali.
Il colpo subito nel 2014-2015 si fece infatti sentire. Le sanzioni, ma anche il dimezzamento del prezzo del petrolio sceso sotto i 42 dollari al barile (che era il prezzo necessario al Cremlino per mantenere in equilibrio il bilancio statale), causarono una vera e propria crisi finanziaria in Russia. Per sostenere un rublo in caduta libera, la Banca Centrale russa si trovò costretta a utilizzare 170 miliardi di dollari dalle sue riserve di valuta internazionale, che diminuirono così del 32%. Per dare un’idea, in risposta alla Grande Recessione del 2008-2009 le riserve russe si contrassero del 36%: numeri molto simili.
Così, per proteggere la sua economia da possibili nuove sanzioni, negli ultimi otto anni Mosca ha ricostituito le sue riserve. Riserve che ora ammontano alla cifra record di 630 miliardi di dollari: una cifra equivalente al 40% del suo PIL (contro una media del 9% detenuto dalle banche dell’Eurozona). E mentre nel giro di 5 anni la quota in dollari è scesa dal 40 al 13%, quella in renminbi è triplicata dal 5 al 15%.
Non solo Mosca sarebbe oggi più preparata a fronteggiare le sanzioni occidentali rispetto al 2014, ma sta anche dimostrando di essere più capace di rispondere colpo su colpo, usando il gas come arma. Ce lo dimostrano proprio i prezzi del gas in Europa, schizzati alle stelle in questi mesi anche grazie a una precisa strategia di razionamento del gas da parte di Gazprom, la compagnia del gas statale russa.
Gli stoccaggi di gas in Europa sono ai minimi degli ultimi 5 anni, al 32% della capacità totale (8 punti percentuali in meno di un anno fa): abbastanza per superare senza affanni l’inverno indipendentemente dalle azioni della Russia, ma non sufficienti a permettere all’industria europea di operare a pieno regime dal prossimo autunno, qualora non si dovessero trovare forniture sufficienti da altri paesi.
Secondo le stime della Banca Centrale Europea, allo stato attuale di prezzi e forniture, la produzione dell’Eurozona diminuirà infatti dello 0,2% entro la fine del 2022. Qualora, poi, prezzi non più sostenibili o necessità di razionamento (una vera e propria “austerity energetica” come quella degli anni Settanta) costringessero gli Stati membri a un razionamento del 10% del gas diretto alle loro imprese, gli impatti sarebbero ancora più gravi: una perdita media dello 0,7% del valore aggiunto annuo dell’Eurozona.
E, purtroppo, l’Italia sarebbe ancora una volta particolarmente esposta: data una dipendenza dal gas russo e una presenza di industrie energivore superiore alla media UE, l’Italia si trova infatti in “pole position” tra i grandi paesi europei, con una perdita attesa dello 0,8% del proprio valore aggiunto.