L’intervista a Francesco Bergoglio, un papa messo al confino per la pandemia

Non ha voluto sottrarsi alla curiosità di chi voleva sapere. Non lesinato attenzione e la sua proverbiale schiettezza che i “vaticanisti” ben conoscono quando lo accompagnano nei viaggi per il mondo. Già. I viaggi. Ora, l’unico viaggio che si può fare è quello dentro se stessi. Francesco Bergoglio, il papa argentino amato dalla gente, sopra i suoi 83 anni ha da tutelarsi rispetto alla minaccia di un virus che, a quell’età, non perdona. In una intervista, la sua prima rilasciata in mezzo al confino di questa pandemia, appena poco prima di una Pasqua che così non si era mai vista, Francesco Bergoglio ha potuto parlare di questi suoi giorni. Uscita in contemporanea su alcune importanti testate giornalistiche e, in Italia, su La Civiltà Cattolica che qui vi proponiamo per intero.



Papa Francesco ha concesso la sua prima ampia intervista sulla crisi mondiale causata dalla pandemia di coronavirus allo scrittore e giornalista britannico Austen Ivereigh, autore della biografia Tempo di misericordia (Mondadori, Milano 2014). L’intervista viene pubblicata oggi simultaneamente in The Tablet (Londra) e Commonweal (New York). In esclusiva ABC offre il testo originale in spagnolo e La Civiltà Cattolica la sua traduzione ufficiale in italiano. Qui una riflessione del direttore, p. Antonio Spadaro S.I. sull’intervista.

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Alla fine di marzo ho suggerito a Papa Francesco che forse era un buon momento per rivolgersi al mondo di lingua inglese. La pandemia che aveva colpito così gravemente l’Italia e la Spagna giungeva anche nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in Australia. Senza promettere niente, mi ha risposto di inviargli le domande. Ho scelto sei temi: ciascuno comprendeva una serie di punti su cui avrebbe potuto rispondere (oppure no) come gli fosse parso meglio. Dopo una settimana mi è giunta comunicazione che aveva registrato alcune riflessioni sulle mie domande. L’intervista è avvenuta in spagnolo.

La prima domanda è stata su come stesse vivendo la pandemia e l’isolamento, sia il suo nella Casa S. Marta sia quello del Vaticano in generale, tanto sotto il profilo pratico quanto sotto quello spirituale.

La Curia cerca di continuare a lavorare, di vivere normalmente, organizzandosi in turni affinché non ci siano mai troppe persone tutte insieme. Una cosa ben pensata. Manteniamo le misure stabilite dalle autorità sanitarie. Qui nella Casa S. Marta sono stati fissati due turni per il pranzo, che aiutano ad attenuare l’afflusso. Ciascuno lavora nel suo ufficio o da casa, con strumenti digitali. Sono tutti al lavoro, nessuno resta in ozio.

Come lo vivo io spiritualmente? Prego di più, perché credo di doverlo fare, e penso alla gente. Mi preoccupa questo: la gente. Pensare alla gente mi unge, mi fa bene, mi sottrae all’egoismo. Ovviamente ho i miei egoismi: il martedì viene il confessore, ed è allora che metto a posto quel genere di cose.

Penso alle mie responsabilità attuali e nel dopo che verrà. Quale sarà, in quel dopo, il mio servizio come vescovo di Roma, come capo della Chiesa? Quel dopo ha già cominciato a mostrarsi tragico, doloroso, per questo conviene pensarci fin da adesso. Attraverso il dicastero per lo Sviluppo umano integrale è stata organizzata una commissione che lavora su questo e si riunisce con me.

La mia preoccupazione più grande – almeno, quella che avverto nella preghiera – è come accompagnare il popolo di Dio e stargli più vicino. Questo è il significato della Messa delle sette di mattina in live streaming, seguita da molti che si sentono accompagnati; come pure di alcuni miei interventi e del rito del 27 marzo in piazza S. Pietro. E di un lavoro piuttosto intenso di presenza, attraverso l’Elemosineria apostolica, per accompagnare le situazioni di fame e di malattia.

Sto vivendo questo momento con molta incertezza. È un momento di molta inventiva, di creatività.

Nella seconda domanda ho fatto riferimento a «I promessi sposi» di Alessandro Manzoni, romanzo ottocentesco italiano molto caro a Francesco, che lo ha citato di recente. La storia si colloca nelle drammatiche vicende della peste del 1630 a Milano. Vi appaiono diversi personaggi ecclesiastici: il prete codardo don Abbondio, il santo cardinale arcivescovo Borromeo, i frati cappuccini che si prodigano nel «lazzaretto», una specie di ospedale da campo dove i contagiati vengono tenuti rigorosamente separati dai sani. Alla luce del romanzo, come vede il Papa la missione della Chiesa nel contesto della malattia Covid-19?

Il cardinale Federigo è un vero eroe di quella peste a Milano. In un capitolo, tuttavia, si dice che passava salutando la gente, ma chiuso nella lettiga, forse da dietro il finestrino, per proteggersi. Il popolo non ci era rimasto bene. Il popolo di Dio ha bisogno che il pastore gli stia accanto, che non si protegga troppo. Oggi il popolo di Dio ha bisogno di avere il pastore molto vicino, con l’abnegazione di quei cappuccini, che facevano così.

La creatività del cristiano deve manifestarsi nell’aprire orizzonti nuovi, nell’aprire finestre, nell’aprire trascendenza verso Dio e verso gli uomini, e deve ridimensionarsi in casa. Non è facile stare chiusi in casa. Mi viene in mente in un verso dell’Eneide che, nel contesto della sconfitta, dà il consiglio di non abbassare le braccia. Preparatevi a tempi migliori, perché in quel momento questo ci aiuterà ricordare le cose che sono successe ora. Abbiate cura di voi per un futuro che verrà. E quando questo futuro verrà, vi farà bene ricordare ciò che è accaduto.

Avere cura dell’ora, ma per il domani. Tutto questo con creatività. Una creatività semplice, che tutti i giorni inventa qualcosa. In famiglia non è difficile scoprirla. Ma non bisogna fuggire, cercare evasioni alienanti, che in questo momento non sono utili.

La terza domanda riguardava le politiche dei Governi in risposta alla crisi. La quarantena di massa è stata un segnale che alcuni governi sono pronti a sacrificare il benessere economico a beneficio dei più vulnerabili, ma al tempo stesso mette in evidenza il livello di esclusione che prima veniva considerato normale e accettabile.

È vero, alcuni governi hanno preso misure esemplari, con priorità ben definite, per difendere la popolazione. Ma ci stiamo rendendo conto che tutto il nostro pensiero, ci piaccia o non ci piaccia, è strutturato attorno all’economia. Si direbbe che nel mondo finanziario sacrificare sia normale. Una politica della cultura dello scarto. Da cima a fondo. Penso per esempio alla selettività prenatale. Oggi è molto difficile incontrare per strada persone con la sindrome di Down. Quando la si vede nelle ecografie, li rispediscono al mittente. Una cultura dell’eutanasia, legale o occulta, in cui all’anziano le medicine si danno fino a un certo punto.

Penso all’enciclica di papa Paolo VI, la Humanae vitae. La grande problematica su cui all’epoca si concentravano i pastoralisti era la pillola. E non si resero conto della forza profetica di quell’enciclica, anticipatoria del neomalthusianismo che stava preparandosi in tutto il mondo. È un avvertimento di Paolo VI riguardo all’ondata di neomalthusianismo che oggi vediamo nella selezione delle persone secondo la possibilità di produrre, di essere utili: la cultura dello scarto.

I senzatetto restano senzatetto. Giorni fa ho visto una fotografia, di Las Vegas, in cui erano stati messi in quarantena in un parcheggio. E gli alberghi erano vuoti. Ma un senzatetto non può andare in un albergo. Qui la si vede all’opera, la teoria dello scarto.

La domanda successiva ha provocato una risposta lunga e meditata. M’incuriosiva sapere se nella crisi e nel suo impatto economico si potesse scorgere un’opportunità di conversione ecologica, di rivedere le priorità e i nostri modi di vivere. Gli ho domandato se concretamente vedesse la possibilità di una società e un’economia meno liquide e più umane.

Dice un proverbio spagnolo: «Dio perdona sempre, noi qualche volta, la natura mai». Non abbiamo dato ascolto alle catastrofi parziali. Chi è che oggi parla degli incendi in Australia? E del fatto che un anno e mezzo fa una nave ha attraversato il Polo Nord, divenuto navigabile perché il ghiaccio si era sciolto? Chi parla delle inondazioni? Non so se sia la vendetta della natura, ma di certo è la sua risposta.

Abbiamo una memoria selettiva. Vorrei insistere su questo. Mi ha impressionato la celebrazione del settantesimo anniversario dello sbarco in Normandia. C’erano personaggi di punta della politica e della cultura internazionale. E festeggiavano. Certo, è vero che fu l’inizio della fine della dittatura, ma nessuno si ricordava dei 10.000 ragazzi caduti su quella spiaggia.

Quando sono stato a Redipuglia, nel centenario della fine della Prima guerra mondiale, si vedeva un bel monumento e nomi sulla pietra, e nient’altro. Ho pianto pensando a Benedetto XV (alla «inutile strage»), come pure ad Anzio, nel giorno dei defunti, pensando a tutti i soldati nordamericani sepolti là. Ognuno aveva una famiglia, al posto di ciascuno di loro potevo esserci io.

Oggi, in Europa, quando si cominciano a sentire discorsi populisti o decisioni politiche di tipo selettivo non è difficile ricordare i discorsi di Hitler nel 1933, più o meno gli stessi che qualche politico fa oggi.

Mi viene ancora in mente un verso di Virgilio: Meminisce iuvabit. Farà bene recuperare la memoria, perché la memoria ci aiuterà. Oggi è tempo di recuperare la memoria. Non è la prima pestilenza dell’umanità. Le altre sono ormai ridotte ad aneddoti. Dobbiamo recuperare la memoria delle radici, della tradizione, che è «memoriosa». Negli Esercizi di sant’Ignazio, tutta la prima settimana e poi la contemplazione per raggiungere l’amore nella quarta settimana seguono interamente il segno della memoria. È una conversione con la memoria.

Questa crisi ci tocca tutti: ricchi e poveri. È un appello all’attenzione contro l’ipocrisia. Mi preoccupa l’ipocrisia di certi personaggi politici che dicono di voler affrontare la crisi, che parlano della fame nel mondo, e mentre ne parlano fabbricano armi. È il momento di convertirci da quest’ipocrisia all’opera. Questo è un tempo di coerenza. O siamo coerenti o perdiamo tutto.

Lei mi chiede della conversione. Ogni crisi è un pericolo, ma è anche un’opportunità. Ed è l’opportunità di uscire dal pericolo. Oggi credo che dobbiamo rallentare un determinato ritmo di consumo e di produzione (Laudato si’, 191) e imparare a comprendere e a contemplare la natura. E a riconnetterci con il nostro ambiente reale. Questa è un’opportunità di conversione.

Sì, vedo segni iniziali di conversione a un’economia meno liquida, più umana. Ma non dovremo perdere la memoria una volta passata la situazione presente, non dovremo archiviarla e tornare al punto di prima. È il momento di fare il passo. Di passare dall’uso e dall’abuso della natura alla contemplazione. Noi uomini abbiamo perduto la dimensione della contemplazione; è venuto il momento di recuperarla.

E a proposito di contemplazione vorrei soffermarmi su un punto: è il momento di vedere il povero. Gesù ci dice che «i poveri li avete sempre con voi». Ed è vero. È una realtà, non possiamo negarla. Sono nascosti, perché la povertà si vergogna. A Roma, in piena quarantena, un poliziotto ha detto a un uomo: «Non può starsene per strada, deve andare a casa sua». La risposta è stata: «Non ho una casa. Vivo in strada». Scoprire la quantità di persone che si emarginano… e siccome la povertà fa vergognare, non la vediamo. Sono là, gli passiamo accanto, ma non li vediamo. Fanno parte del paesaggio, sono cose. Santa Teresa di Calcutta li ha visti e ha deciso di intraprendere un cammino di conversione.

Vedere i poveri significa restituire loro l’umanità. Non sono cose, non sono scarti, sono persone. Non possiamo fare una politica assistenzialistica come con gli animali abbandonati. E invece molte volte i poveri vengono trattati come animali abbandonati. Non possiamo fare una politica assistenzialistica e parziale.

Mi permetto di dare un consiglio: è ora di scendere nel sottosuolo. È celebre il romanzo di Dostoevskij, Memorie del sottosuolo. E ce n’è un altro più breve, Memorie di una casa morta, in cui le guardie di un ospedale carcerario trattavano i poveri prigionieri come oggetti. E vedendo come si comportavano con uno che era appena morto, un altro detenuto esclamò: «Basta! Aveva anche lui una madre!». Dobbiamo ripetercelo molte volte: quel povero ha avuto una madre che lo ha allevato con amore. Non sappiamo che cosa sia successo poi, nella vita. Ma aiuta pensare a quell’amore che aveva ricevuto, alle speranze di una madre.

Noi depotenziamo i poveri, non diamo loro il diritto di sognare la loro madre. Non sanno che cosa sia l’affetto, molti vivono nella dipendenza dalla droga. E vederlo può aiutarci a scoprire la pietà, quella pietas che è una dimensione rivolta verso Dio e verso il prossimo.

Scendere nel sottosuolo, e passare dalla società ipervirtualizzata, disincarnata, alla carne sofferente del povero, è una conversione doverosa. E se non cominciamo da lì, la conversione non avrà futuro.

Penso ai santi della porta accanto in questo momento difficile. Sono eroi! Medici, volontari, religiose, sacerdoti, operatori che svolgono i loro doveri affinché questa società funzioni. Quanti medici e infermieri sono morti! Quanti sacerdoti sono morti! Quante religiose sono morte! In servizio, servendo.

Mi viene in mente una frase ne I Promessi sposi, del sarto, a mio giudizio un personaggio tra i più semplici e più coerenti. Diceva: «Non ho mai trovato che il Signore abbia cominciato un miracolo senza finirlo bene». Se riconosciamo questo miracolo dei santi accanto a noi, di questi uomini e donne eroici, se sappiamo seguirne le orme, questo miracolo finirà bene, sarà per il bene di tutti. Dio non lascia le cose a metà strada. Siamo noi che le lasciamo e ce ne andiamo.

Quello che stiamo vivendo è un luogo di metanoia, di conversione, e ne abbiamo l’opportunità. Quindi facciamocene carico e andiamo avanti.

La quinta domanda riguardava la necessità, in questi mesi, di ripensare il modo di essere della Chiesa: forse una Chiesa più missionaria, più creativa, meno aggrappata alle istituzioni. Stiamo vivendo l’emergenza di una «home Church», di una Chiesa che fa base anche in casa?

Meno aggrappata alle istituzioni? Direi piuttosto agli schemi. Infatti la Chiesa è istituzione. Esiste la tentazione di sognare una Chiesa deistituzionalizzata, per esempio una Chiesa gnostica, senza istituzioni, o soggetta a istituzioni fisse, per proteggersi, ed è una Chiesa pelagiana. A rendere la Chiesa istituzione è lo Spirito Santo. Che non è gnostico né pelagiano. È lui a istituzionalizzare la Chiesa. È una dinamica alternativa e complementare, perché lo Spirito Santo provoca disordine con i carismi, ma in quel disordine crea armonia. Chiesa libera non vuol dire una Chiesa anarchica, perché la libertà è dono di Dio. Chiesa istituzionalizzata vuol dire Chiesa istituzionalizzata dallo Spirito Santo.

Una tensione tra disordine e armonia: è questa la Chiesa che deve uscire dalla crisi. Dobbiamo imparare a vivere in una Chiesa in tensione tra il disordine e l’armonia provocati dallo Spirito Santo. Se mi chiede un libro di teologia che possa aiutarla a comprenderlo, sono gli Atti degli apostoli. Ci troverà il modo in cui lo Spirito Santo deistituzionalizza quello che non serve più e istituzionalizza il futuro della Chiesa. Questa è la Chiesa che deve uscire dalla crisi.

Qualche settimana fa mi ha telefonato un vescovo italiano. Afflitto, mi diceva che stava andando da un ospedale all’altro per dare l’assoluzione a tutti quelli che erano all’interno, mettendosi nella hall. Ma dei canonisti che aveva chiamato gli avevano detto di no, che l’assoluzione è permessa soltanto con un contatto diretto. «Padre, che mi può dire?», mi ha domandato quel vescovo. Gli ho detto: «Monsignore, svolga il suo dovere sacerdotale». E il vescovo mi dice: «Grazie, ho capito». Poi ho saputo che impartiva assoluzioni dappertutto.

In altre parole, la Chiesa è la libertà dello Spirito in questo momento davanti a una crisi, e non una Chiesa rinchiusa nelle istituzioni. Questo non vuol dire che il diritto canonico sia inutile: serve, sì, aiuta, e per favore usiamolo bene, perché ci fa del bene. Ma l’ultimo canone dice che tutto il diritto canonico ha senso per la salvezza delle anime, ed è qui che ci viene aperta la porta per uscire a portare la consolazione di Dio nei momenti di difficoltà.

Mi ha chiesto della «home Church». Dobbiamo affrontare il restare a casa con tutta la nostra creatività. O ci deprimiamo, o ci alieniamo – per esempio, con mezzi di comunicazione che possono condurci a realtà di evasione dal momento presente –, oppure creiamo. In casa abbiamo bisogno di creatività apostolica, creatività purificata da tante cose inutili, ma con nostalgia di esprimere la fede in comunità e come popolo di Dio. Ovvero: una clausura forzata con nostalgia, a uscire dal nostro isolamento deve aiutarci quella memoria che produce nostalgia e provoca la speranza.

Infine gli ho domandato come vivere questa Quaresima e questa Pasqua così straordinarie. Gli ho chiesto se avesse un messaggio particolare per gli anziani isolati, i giovani rinchiusi, e per chi si impoverisce a causa della crisi.

Lei mi parla di anziani isolati. Solitudine e distanza. Quanti anziani hanno figli che non vanno a trovarli nei tempi normali! Ricordo che a Buenos Aires, quando visitavo le case di riposo, domandavo agli ospiti: come va la famiglia? «Ah, sì, benone, benone». Vengono? «Sì, vengono sempre». Poi l’infermiera mi diceva che erano passati sei mesi dall’ultima volta che i figli erano andati a trovarli. La solitudine e l’abbandono, la distanza.

E ciò nonostante gli anziani continuano a essere le radici. E devono parlare con i giovani. Questa tensione tra vecchi e giovani deve sempre risolversi nell’incontro. Perché il giovane è germoglio, fogliame, ma ha bisogno della radice; altrimenti non può dare frutto. L’anziano è come la radice. Agli anziani di oggi voglio dire: so che sentite la morte vicina e avete paura, ma volgete lo sguardo dall’altra parte, ricordate i nipoti e non smettete di sognare. È questo che Dio vi chiede: di sognare (Gioele 3,1).

Che ho da dire ai giovani? Abbiate il coraggio di guardare più avanti e siate profeti. Al sogno degli anziani faccia riscontro la vostra profezia. Anche questo è in Gioele 3,1.

Le persone rese povere dalla crisi sono i defraudati di oggi che si aggiungono a tanti spogliati di sempre, uomini e donne che portano «spogliato» come stato civile. Hanno perduto tutto o stanno per perdere tutto. Che senso ha per me, oggi, questo perdere tutto alla luce del Vangelo? Entrare nel mondo degli «spogliati», capire che chi prima aveva adesso non ha più. Quello che chiedo alla gente è di farsi carico degli anziani e dei giovani. Di farsi carico della storia. Di farsi carico di questi defraudati.

E mi viene in mente un altro verso di Virgilio, quando Enea, sconfitto a Troia, aveva perduto tutto e gli restavano due vie d’uscita: o rimanere là a piangere e porre fine alla sua vita, o fare quello che aveva in cuore, andare oltre, andare verso i monti per allontanarsi dalla guerra. È un verso magnifico: Cessi, et sublato montem genitore petivi. «Mi rassegnai e sollevato il padre mi diressi sui monti».

È questo che tutti noi dobbiamo fare oggi: prendere le radici delle nostre tradizioni e salire sui monti.

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