Se il carcere non ammette ricupero. Antonella Ricciardi ne parla con Monica Moschioni

dalla parte dei detenuti | di antonella ricciardi |


Dal caso “Cutolo” a quello di altri italiani noti per malefatte compiute nei decenni scorsi e lasciati in carcere a vita per “comodità”, codardia di Stato o a monito pubblico. E il sospetto si fa strada davanti a quesiti che non possiamo più trascurare. Possiamo ancora conciliare la sicurezza individuale a quella collettiva, la costruzione concreta dello Stato di Diritto che non ammetta discriminazioni aprioristiche tra detenuti e detenuti? Questi ed altri quesiti/temi hanno fatto parte del dialogo con Monica Moschioni, avvocato a Parma, particolarmente ispirata ed impegnata a rendere l’esecuzione penale il più possibile conforme ai principi di umanità della Costituzione. Tra i molti casi dei quali la dottoressa Moschioni si è occupata ricordiamo quello di Michele Pepe, giovane deceduto in circostanze da chiarire. Ma i casi di detenuti sono tanti “parcheggiati”, anche stabilmente, in un centro clinico dipendente dal carcere, oltre che in qualche centro di cura esterno. Li chiamano “differimenti non ufficiali” e si tratta forse di una via “intermedia”. Il caso di “Parma” è sotto riflettori. Lì dove diversi sono i casi di persone alle quali, in alcuni casi, non è stato tolto il 41 bis. Né è stato dato un qualche differimento ufficiale della pena. Detenuti in strutture diverse dal carcere, per seri problemi di salute, ma pur sempre detenuti. Un caso emblematico tra i vari (pur non compreso tra quelli seguito dalla Moschioni), è quello di Vincenzo Stranieri, ex boss della Sacra Corona Unita, da anni una “casa di lavoro”: una fattoria in cui è confinato. Stranieri ha perso la libertà dal 1984 nonostante non abbia ergastoli e non abbia commesso omicidi.  Con Monica Moschioni abbiamo discusso anche del caso Raffaele Cutolo detenuto dal ’63 e tenuto al 41 bis nonostante abbia dichiarato la sua conversione pubblica e raggiunto un’età dove sempre più chiara e netta è la sua dissociazione dagli anni della “sua” NCO (nuova camorra organizzata).


Nella foto Monica Moschioni

Avvocato Moschioni, lei si è occupata di numerosi casi relativi alla tutela della salute dei detenuti, per il rispetto del diritto e dei diritti. Sicurezza collettiva ed individuale non devono essere in contrasto, sul piano dei principi, ma in che percentuale pensa vi sia realmente una tale conciliazione di esigenze, per la sua esperienza personale?

La mia esperienza per tipologia di detenuti e per luoghi mi porta a dire alcune cose. Esercito non solo a Parma ma in diverse altre ragioni. Il carcere di  Parma, poi, ospita una tipologia di detenuti un po’ particolare. Lì abbiamo detenuti di alta sorveglianza, classificati con AS1, AS3. E poi c’è la tipologia del 41 bis. Rispetto a loro, abbiamo anche quelli nel Sai, il vecchio centro clinico. Un centro per detenuti con patologia. Arrivano detenuti da tante carceri italiane…se parliamo di detenuti con una caratura criminale elevata, considerati dalla Direzione Nazionale Antimafia di un certo tipo, che per tali informative rappresentano un rischio per la sicurezza e con una percentuale di “scorrimento” chiaramente molto più bassa. Poi ci sono detenuti del sistema di media sicurezza che sono quelli del circuito per reati comuni e non per reati associativi o reati collegati. I detenuti per reati associativi, quindi, incidono in maniera molto maggiore. Devo però dire che il carcere di Parma è un ambiente particolare. La mia esperienza non è stata particolarmente felice. L’avere individuato per questo carcere anche un centro clinico, anche per le cure per detenuti è un aspetto molto complesso. Soprattutto nella diagnosi iniziale con condizioni croniche, sia dei detenuti EIV [elevato indice di vigilanza, n.d.r.], come per quelli comuni e per quelli che sono al 41 bis. Si presuppone che ci siano strutture in grado di fornire tutta la gamma di terapie quindi, per esempio, anche terapie intensive di lunga durata. Oggi stesso (vorrei fare un esempio senza dilungarmi), ero in Tribunale di sorveglianza, per la discussione di alcuni fascicoli relativi a miei assistiti. Ebbene, alcuni sono di media sicurezza, quindi per reati contro il patrimonio. Parlo di furti, ma anche di furti aggravati, rapine e reati di associazione, in esecuzione pena,  con il 4 bis.

Questi ultimi, diciamo, contro la sicurezza dello Stato..

Sì. Ad alta sicurezza. Ecco, in questo caso, la valutazione da parte del carcere è molto differente. Con detenuti che espiano questi reati si ha molta più attenzione per la sicurezza che per quella che dovrebbe essere la tutela della salute. Contrariamente a quello che sarebbe il disposto normativo del nostro ordinamento penitenziario che prevede una tutela del diritto alla salute indipendente dal tipo di reato che si sta espiando che deve essere indipendente, in teoria, dal fatto che si sia dissociati da un certo tipo di reato.

Avvocato Moschioni, il diritto alla salute deve essere inalienabile per tutti?

In effetti ì. Il diritto alla salute è riconosciuto costituzionalmente, per tutti i cittadini, indipendentemente se sia cittadini che stanno espiando una pena o l’altra. Quindi le esigenze di sicurezze non dovrebbero collidere con la cura.

Avvocato Moschioni, credo poi che misure di sicurezza ci possano, ci debbano essere anche nel centro clinico, per conciliare esigenze diverse…

Il centro clinico, per come è stato previsto dall’amministrazione penitenziaria, dovrebbe essere una sorta di contenitore autosufficiente, cioè dovrebbe essere in grado di ospitare i detenuti che hanno necessità di una diagnosi e fornire le cure, per poi trasferirli, eventualmente, in centri specializzati, in reparti ospedalieri, che non sono compresi nelle amministrazioni penitenziarie o in detenzione domiciliare. Quando sono nel centro clinico, chiaramente, sono rispettate tutte queste esigenze di sicurezza. Il centro clinico nei fatti è un’ala del carcere, con tutte le misure di sicurezza: la polizia presidenziale, le sbarre… . Gli stessi detenuti nell’ambito del centro clinico, dovrebbero godere semplicemente di una presenza costante del servizio infermieristico e del servizio medico. L’unica differenza, rispetto ad una detenzione ordinaria, è che non c’è la visita a richiesta, ma dovrebbe esserci un presidio medico, un presidio infermieristico, costante: h 24, quindi è per persone non autosufficienti, detenuti in carrozzina o che hanno delle tetraplegie, e così via, perchè ospitiamo appunto una sezione di minorati fisici, con situazioni croniche, per cui necessitano costantemente di un’assistenza. Si tratta di assistenza di vari tipi. Dalla pulizia della cella alla doccia, alla propria igiene personale… Il punto è che poi ci si scontra con le carenze organiche e con le esigenze del personale. Finché  i detenuti rimangono in un carcere come quello di Parma la sicurezza è la maggiore esigenza tutelata. Detto questo, riescono però ad avere delle cure specialistiche. Faccio un esempio. La fisioterapia che dovrebbe essere una delle motivazioni per le quali  vengono portati a Parma, può essere richiesta. Ma noi non abbiamo un fisioterapista fisso che sia in grado di dare un’assistenza quotidiana ad un detenuto con una certa patologia neurologica, che dovrebbe avere una medicazione quotidiana per mantenere un minimo di autonomia. L’indicazione della concreta amministrazione penitenziaria è un po’ diversa dalle prescrizioni generali, teoriche… Questa è una questione anche di capacità economica, di fondi che vengono stanziati. Questo è il problema.

Certo, suppongo comunque che essere curati in questo centro clinico sia meglio che essere curati nell’infermeria del carcere: che sia un passo ulteriore…

Il centro clinico, quantomeno, garantisce quantomeno la presenza di infermieri e medici in modo continuativo, h 24, per cui l’eventuale emergenza potrebbe essere risolta con maggiore rapidità: non significa, però, che tutto possa essere risolto all’interno del carcere. Per questo motivo, molti detenuti devono fare riferimento alla struttura ospedaliera più vicina. Parlo di un ospedale civile che principalmente è il punto di riferimento dei detenuti, oltre al centro clinico…perché ha una sezione, un reparto detentivo e quindi degli ambienti ospedalieri controllati che sono garantiti all’interno della struttura ospedaliera pubblica. Spazi nei quali possono, appunto, ottenere le cure dai sanitari stessi. Sono, quindi, equivalenti a celle, in regime di  sicurezza, ma hanno le stesse caratteristiche fisiche delle stanze ospedaliere però sono isolate dal resto della struttura ospedaliera, senza contatto col resto, ma possono essere raggiunte agevolmente da medici, infermieri, Oss, che fanno servizio per quell’area…. La differenza è l’intervento più rapido del medico che potrà poi smistare il detenuto bisognoso di cure più urgenti, per una diversa terapia, per una cura farmacologica o per fare una visita rispetto ad una eventuale problematica nuova o, anche, per rimodulare una terapia… . Del resto, purtroppo il carcere di Parma è diventato una sorta di “cronicario: lo dico con un termine un po’ crudo…

Il carcere di Parma

Avvocato Moschioni, può darsi che a volte, invece di dare un differimento ufficiale, molti vengano “parcheggiati” in qualche centro, dipendente dal carcere, e non solo?

Vengono parcheggiati lì, in queste circostanze. Ci sono comunque caratteristiche differenti tra la situazione a Parma e, ad esempio, il carcere di  Milano Opera che credo possa approfittare di una ricettività maggiore di strutture ospedaliere esterne lombarde perché Milano, per fortuna, ne ha molte di più specializzate e molto migliori. Il carcere di Parma ha queste caratteristiche un po’ di “stagnazione” , con il centro clinico, dove si rimane, con assegnazione di un posto letto, per un lungo periodo. Per sua natura, invece,  quando è stato studiato questo reparto, centro clinico, avrebbe dovuto prevedere una turnazione, cioè si tratterebbe di una diagnosi, di una individuazione di una terapia, di un apprestamento di cure specialistiche, e poi un rientro nella sezione ordinaria. Questo dovrebbe essere l’iter: è come andare in pronto soccorso, è come se si andasse parcheggiati in pronto soccorso per un lungo periodo; uno ci dovrebbe andare semplicemente per avere un intervento urgente. In questo momento, il problema parmense è avere un  numero di persone che non si spostano da questa struttura, per cui evidentemente c’è un difetto…  La sua natura doveva essere quella, doveva essere una nuova sezione detentiva, nella quale  si andava a trascorre la propria detenzione, e non necessariamente porta ad un miglioramento della condizione clinica, perché, se si rimane in quel contesto, semplicemente si ha un monitoraggio un po’ più frequente. Per un detenuto al centro clinico, magari, la visita è quotidiana… E se ci sono delle emergenze, viene segnalato all’igiene pubblica ed alla salute pubblica, alla sanità pubblica, per andare, ad esempio, a fare un accertamento strumentale maggiore. Il problema è che abbiamo delle liste d’attesa, proprio perché è diventato un modello di cronicario, con  una lista di attesa molto lunga, con posti limitati.  L’ultima lista di attesa, del nostro garante locale, portava una lista di attesa di 150 detenute, cioè persone venute da altre strutture penitenziarie, che dovrebbero essere collocate fisicamente nella struttura al centro clinico, ma poiché i posti sono esauriti, sono attualmente nella sezione ordinaria, e accedono semplicemente alle visite mediche, all’interno del centro clinico. Non è la stessa cosa: è una situazione in cui occorre sempre chiamare il medico, per potere avere l’intervento; chiamare da una sezione all’altra significa aprire i cancelli, avere un agente che intervenga, che si accorga dell’urgenza, che effettui la chiamata; quindi, faccio un esempio: un cardiopatico, se dovesse avere un evento urgente, nel cuore della notte, se collocato in un’area ospedaliera, potrebbe avere un intervento immediato, in pochi minuti. Se fosse invece collocato in una sezione detentiva ordinaria, invece che al centro clinico, potrebbe invece attendere per 20 minuti, prima avere un  intervento.

Avvocato Moschioni, bisognerebbe prevenire, sapendolo”

Infatti. Potrebbero essere anche i tempi che fanno la differenza tra un intervento tardivo e non. Facciamo invece l’esempio di una persona, ridotta in carrozzina, per  effetto di una patologia degenerativa neurologica: a quel punto, in caso di necessità di intervento, la differenza non è così eclatante, perché potrebbe esserci una sensazione di dolore, che si protrae  per giorni, ma l’intervento tardivo non va ad incidere sulla possibilità di decesso. Questo è il problema.

Può darsi, a suo avviso, avvocato Moschioni, che questa tendenza a parcheggiare in centro clinico sia frutto di una tendenza alla remora nel dare differimento, chissà? Forse remore per motivi di sicurezza, forse un po’ troppo in primo piano.

C’è stato questo tipo di involuzione. I magistrati, sulla sicurezza, sono stati più orientati a mantenere la prigionizzazione, a mantenere i detenuti, soprattutto di certi regimi, e quindi con una certa pericolosità sociale, all’interno del carcere: quindi sì, può essere.

Però la legalità è anche garantire la salute, il carcere non deve diventare luogo, in qualche modo, di illegalità, e la sicurezza deve essere sicurezza di tutti…

In realtà la Corte di Cassazione è intervenuta più volte nell’annullare con  rinvio le ordinanze di magistrati di sorveglianza, ed anche di magistrati di Bologna, stabilendo che il rispetto del diritto alla  salute passi non solo attraverso la totale incompatibilità con la detenzione, ma anche nell’ipotesi in cui non siano state apprestate tutte le cure, di cui il malato avrebbe avuto bisogno, o alle quali avrebbe potuto accedere, se si fosse trovato in una situazione non detentiva. Non necessariamente devono essere disposte misure alternative al carcere, quindi misure extramurarie. Un’altra possibilità è la permanenza in strutture ospedaliere, insomma, centri sanitari, perché non necessariamente si arriva alla detenzione domiciliare, a casa propria. Su ciò c’è una grande ambiguità,  soprattutto in termini di comunicazione pubblica.

Avvocato Moschioni si può disporre misura alternativa anche in una casa di cura: qualcosa di intermedio. Non piena libertà, ma qualcosa di più morbido rispetto al carcere.

Infatti. Detenzione domiciliare non vuol dire solo andare a casa propria. A volte, la propria abitazione potrebbe non essere la soluzione corretta, per condizioni di salute gravi. Ci può essere una struttura ospedaliera, a volte anche una struttura privata, una struttura convenzionata,  accreditata, che fornisca la possibilità di  ricevere quelle cure che purtroppo, in carcere, non sono possibili. A volte l’equivoco con la comunicazione è anche questo: credo che il grosso equivoco che c’è stato, soprattutto nel periodo, diciamo, “Covid”, il periodo dell’emergenza sanitaria, che poi ha determinato, secondo me, delle storture,  con dei decreti, per cui sono intervenuti con dei correttivi, a mio parere inidonei a fronteggiare la situazione. L’impressione è che i detenuti venissero ammessi alla libertà, come se venissero beneficiati di un regalo, e che fossero liberi di scorrazzare…

C’è stata quindi una comunicazione errata?

Esatto. In realtà, non era questo.

Una comunicazione con delle carenze, con delle omissioni

In realtà, le richieste non erano queste, ma neanche i provvedimenti che sono stati emessi, perché nei provvedimenti che ho potuto visionare io (ma probabilmente nella totalità dei provvedimenti) , emessi dal magistratura di sorveglianza, dagli uffici di sorveglianza, in via provvisoria,  o in via definitiva, dei Tribunali di sorveglianza territoriali, collegiali, erano dei provvedimenti che, spesso e volentieri, stabilivano dei collocamenti in strutture ospedaliere, o che stabilivano dei collocamenti a casa, per l’accesso continuativo alle cure per le strutture ospedaliere, quindi non era libertà dall’esecuzione della pena: ci sono delle prescrizioni, delle indicazioni specifiche, la possibilità di muoversi sul territorio, in alcuni casi  solo con l’accesso a cure ospedaliere, quando il carcere non sia in grado di fornire.

Certo, è chiarissimo, ma già prima dell’emergenza covid c’erano dei problemi, e c’era stato, tra quelli da lei trattati, il caso tragico di una persona, non ammessa, forse nei tempi giusti alle cure: Michele Pepe. Detenuto per camorra, passato dal regime del 41 bis ad uno meno estremo, sebbene, comunque, di alta sicurezza Michele Pepe è purtroppo deceduto a soli 48 anni, nel 2018. Data la concomitanza quasi completa tra decisione di nuova incarcerazione ed infarto, si è fatto abbastanza, avvocato Moschioni, per chiarire se si sia trattato di una tragica fatalità o forse c’erano elementi emersi per continuare le cure nel centro specializzato?

Quella con Michele Pepe, per quanto mi riguarda, è stata purtroppo un’esperienza negativa: nel senso che Michele Pepe ha avuto un iter piuttosto, diciamo, “movimentato”. Era stata richiesta la detenzione ospedaliera, in questo caso, poi trasformata  in detenzione domiciliare, perché non si era riusciti ad individuare una struttura idonea ad ospitarlo: lui aveva una serie importante di patologie.

Giovane ma con patologie?

Esatto. Si è dovuti, purtroppo, arrivare nelle more dell’accertamento, di questa sua  incompatibilità della sua situazione con il carcere. Nel suo caso, si è dovuti arrivare purtroppo ad un evento critico: è stato ricoverato in situazione di urgenza all’ospedale.

Ospedale esterno e non centro clinico?

Era stato ricoverato in situazione di criticità assoluta. Era entrato in ospedale in stato comatoso, quando appunto il carcere non poteva essere più in grado di fare nulla, per cui ha dovuto accedere alle cure della rianimazione. In quel caso gli era stato concesso: l’ospedale era stato in grado di risolvere la situazione, quantomeno a riportare la criticità ad un livello di stabilità; quindi, era stato ammesso alla detenzione domiciliare, dopo avere avuto un lungo periodo di ricovero ospedaliero, in una condizione di totale incoscienza, perché aveva avuto, appunto, un periodo di coma.

Un altro caso del quale si è occupata, avvocato Moschioni, è quello famoso di Raffaele Cutolo, in sostituzione temporanea dell’avvocato Gaetano Aufiero, che è tuttora il suo avvocato storico. In collaborazione, quindi, con l’avvocato Aufiero (che aveva chiesto la revoca del rinnovo del 41 bis), lei ha richiesto differimento della pena, cioè che potesse essere scontata in luogo diverso dal carcere: ad esempio una casa, o un centro per anziani, e con assistenza…

Avevo anche richiesto che potesse essere seguito presso una struttura ospedaliera perché mancava una parte degli accertamenti.

Nella foto Raffaele Cutolo

Il medico chiesto da Aufiero?

Sì, esatto!

E non era neanche di Ottaviano. E lui poi è andato in centro clinico o direttamente altrove?

Lui è andato in un reparto dell’ospedale di Parma.

Direttamente in un centro sanitario del tutto esterno al carcere?

Sì, è un centro esterno, fuori dalla struttura penitenziaria,  in un reparto che viene riservato a coloro che vengano da strutture detentive; comunque, è un reparto non per espiazione delle pene, ci si va a causa quando si entra in urgenza. Normalmente si viene ospitati in questo reparto detentivo, che prevede un pernottamento, cioè se il detenuto non deve semplicemente andare a fare solo una visita, piuttosto che un accertamento, radiografico, o ecografico, o che quel che sia, ma si deve avere un check up, che prevede un pernottamento in ospedale: è un reparto detentivo presso l’ospedale, oppure se avviene un evento critico: ad esempio, per un detenuto che un infarto, un ictus, o deve subire un accertamento, o  per un intervento chirurgico. Di solito però è per un periodo temporaneo: si arrivano ad effettuare gli accertamenti che sono previsti, gli interventi di urgenza. Nel caso del signor Cutolo si sta verificando una cosa abbastanza anomala…

Che sta diventando collocazione definitiva?

Perfetto!

Eppure, avvocato Moschioni, Cutolo più volte, ha detto di aver chiuso con la camorra, pur non avendo collaborato; insomma, ci possono essere molti motivi dietro una non collaborazione. Non è facile uscire attivamente dalle mafie, ma non è detto che sia più collegato, e non è detto che voglia esserci ancora realmente.

Anche la Corte Costituzionale, in tempi recentissimi, ha dato questa lettura, finalmente, della questione.

A volte, avvocato Moschioni, non si fanno i nomi degli altri perché si temono, in quei casi, rappresaglie, perché si è contrari a delazioni”.

La Corte Costituzionale ha sostenuto finalmente il diritto di difesa, anche senza collaborare, che significa anche difesa di sé, della propria famiglia, da rischi per l’incolumità personale. La collaborazione non significa sempre e solo una scelta personale, potrebbe implicare delle conseguenze a cascata sui propri familiari.

Nessuna delle due è scelta facile, è chiaro.  Comunque, dottoressa, in quei giorni, immediatamente precedenti al trasferimento di Raffaele Cutolo, c’era stata in effetti più attenzione sul tema, con vari servizi d’informazione, tra cui un programma di Radio Radicale sui diritti di tutti, anche dei suoi. Lei pensa che una informazione corretta quanto possa aiutare le coscienze?  Prima si parlava di una informazione invece non sempre corretta, sulla scarcerazione di certi boss…

Sì, l’informazione corretta è fondamentale. Io credo che sia stata fatta, in contemporanea alla questione della scarcerazione dei boss, una disinformazione assoluta. Mi riferisco, in particolare, ad alcune trasmissioni televisive.

Al tempo della prima emergenza Covid?

Al tempo della prima emergenza Covid, che purtroppo tempo si riproporrà a breve, perché non escludo la possibilità di ritornare ad una situazione simile, quantomeno numericamente.

Anche perché molti di questi detenuti per mafie sono molto anziani, e quindi, sono proprio loro i più a rischio, e  bisognosi di cure…

Per citare la situazione che io vivo a Parma, bisogna dire che molti di questi detenuti sono con delle pene perpetue, con condanne all’ergastolo, o condanne trentennali, che magari sono arrivate ad essere pronunciate a distanza di 20 anni, dalla commissione dei fatti, quindi non è così anomalo trovare delle sentenze di condanna all’ergastolo, che vengono pronunciate per fatti degli anni ottanta, che diventano irrevocabili 20-25 anni dopo. In questi casi,  la persona probabilmente ha raggiunto anche un’età anagrafica elevata. La detenzione per un lungo periodo di tempo può essere un fattore di aggravamento di una serie di condizioni di salute. Sebbene l’informazione pubblica faccia spesso disinformazione, faccia pensare che i detenuti abbiano tutti beni per godersi la vita; si critica perfino che abbiano la televisione… in realtà la ristrettezza in un ambiente in cui non c’è la possibilità di esercizio fisico più accentuato, incide.

La detenzione in sé, avvocato Moschioni, è una pena quasi corporale?”

Sì, in parte è una pena corporale!

In parte lo è, quindi, non nel senso di violenza attiva, ma in altro senso sì.

Assolutamente sì, perché l’incidenza di patologie cardiologiche, che sono collegate ad una situazione di restrizione, di stress, di limitazione proprio fisica, per cui non si riesce a mantenere quella salute del corpo, che dovrebbe andare di pari passo con l’aumento dell’età. E’ chiaro che  molti detenuti di 70 anni, 80 anni, 85 anni, in condizione di libertà, potrebbero ambire ad una vita un po’ più lunga, arrivano con una serie di patologie, che li rendono chiaramente più fragili. Quindi preservare la salute in ambito penitenziario, a mio avviso, significherebbe anche fare una politica collettiva e sociale di diminuzione dei costi, cioè l’ammissione di detenuti a misure esterne, come la detenzione domiciliare, che poi non sono misure alternative: in questo caso, sono modalità differenti di esecuzione della pena. Per misure alternative io intendo tutte quelle modalità che prevedono un comportamento attivo: dalla possibilità di partecipare ad una risocializzazione, con il lavoro, con la partecipazione alla vita dello Stato.

Sono tutte molto minori, insomma, le prime attenuazioni…

La detenzione domiciliare, in caso di situazioni di salute fisica danneggiata, è semplicemente una modalità diversa di eseguire la pena; sarebbero, però, costi molto minori, quelli a carico dei cittadini, per il servizio sanitario nazionale: perché un detenuto malato, all’interno del carcere, anche per prevenire danni gravi, è sottoposto ad una serie di visite, di controlli, di accertamenti diagnostici, che sono molto maggiori di quelli cui verrebbe sottoposto, se fosse detenuto affidato alle cure della famiglia, in un ambito detentivo in un ambito domiciliare, in un ambito pure molto ristretto.

Forse sarebbero conciliati meglio sicurezza collettiva e risparmio…

Certo, ci sarebbe un risparmio, senz’altro. Io vedo il quadro clinico, ad esempio in vista di un’udienza di oggi: racconto di problemi dei miei assistiti, che avevano un peso specifico proprio elevatissimo: si dovevano prevenire eventi critici, che poi sono responsabilità dei sanitari: le persone fisiche a cui questi detenuti sono affidati; quindi viene un dubbio: piuttosto che rischiare un infarto, si fa un accertamento in più, e questa ha un costo, ma i costi in termini di sanità sono quelli della traduzione di un detenuto, che deve uscire dal carcere con una scorta, che deve essere accompagnato da un numero di agenti che lo vigilano. Non credo quindi che certa comunicazione faccia corretta informazione;  se solo si verificassero i rapporti dei garanti locali dei detenuti, che sono anche rapporti sull’incidenza di spesa della sanità penitenziaria, rispetto alle spese di un comune. Questo non è nell’interesse pubblico, mantenere delle persone in condizioni di incompatibilità, all’interno delle mura di un carcere. Sarebbe molto più economico farli andare a casa o in altra struttura, con aiuti e  contributi economici della propria famiglia.

Forse, avvocato Moschioni, pesano anche i timori di un’opinione pubblica non bene informata. A volte, invece, quando ci sono forme di informazione diversamente orientate, sul garantismo, in alcuni casi si vedono dei risultati. Non so se ci sia rapporto di  causa ed effetto, ma è possibile si raggiungano delle coscienze. A volte si nota anche il contrario. Magari non spessissimo ma ancora troppo poco.

Ci sono magistrati assolutamente terzi, alcuni fanno giurisprudenza: sono davvero delle perle, vengono indicati come punti di riferimento: li chiamerei un patrimonio nazionale, per quanto ci riguarda: hanno un’indipendenza assoluta, fanno una valutazione assolutamente oggettiva dei dati che vengono portati avanti, indipendentemente dal nome e dal cognome, che possono essere pesanti per l’opinione pubblica: con una totale terzietà rispetto alla valutazione che potrebbe avere quel provvedimento da parte dell’opinione pubblica. E questi sono quei casi di una corretta applicazione della giustizia. Dovrebbe essere quello: il giudice non dovrebbe essere influenzato da certi fatti, dal curriculum criminale, quando valuta condizioni di salute di un individuo; così come un medico che va a fare una valutazione: per medico intendo un perito del Tribunale, che deve fare una valutazione di compatibilità, a mio parere non dovrebbe neanche conoscere l’identità del detenuto che va a valutare. La prima domanda che viene posta da alcuni periti è: “Che cosa ha fatto?”. Non dovrebbe essere questa la domanda che viene posta.

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