Michele Bovi è il maggior conoscitore di vicende che concernono i plagi musicali: suoi sono i dossier per Raiuno e Raidue sullo scottante tema della violazione, vera o presunta, dei diritti d’autore. Ora, dopo aver pubblicato libri imprescindibili sul tema (come Anche Mozart copiava, Auditorium 2004), ed essersi dedicato, al quello non lontano degli eroi e dei banditi nella musica (Note segrete: eroi, spie e banditi della musica italiana, Graphofeel 2017) ha dato alle stampe un monolite che riesce a condensare informazioni, gradevolezza di consultazione, agilità divulgativa e precisione dei riferimenti. Il volume si intitola Ladri di canzoni. Duecento anni di liti musical-giudiziarie dalla A alla Z, Hoepli 2019. Il Leitmotiv è tracciato da Michele Bovi sin dalle prime righe del ponderoso (ma fruibilissimo) volume:
“Ladri di canzoni, di musiche, di parole, di concetti sono fatalmente tutti quelli che oggi realizzano opere d’ingegno destinate a un consumo popolare. Un’affermazione che vale per l’arte in generale, per la musica in particolare e segnatamente per la cosiddetta musica leggera nelle diverse accezioni: rassegniamoci, da tempo ogni possibile combinazione melodica, armonica, ritmica, testuale è stata scovata, rimuginata, rovesciata, rielaborata. Pertanto gli autori, per quanto onesti e virtuosi, sono inevitabilmente esposti all’accusa di indebita appropriazione di lavori altrui da parte di masse di ascoltatori autodesignatisi esperti del pentagramma”.
(Michele Bovi, Ladri di canzoni, Hoepli, p. 1)
L’esperienza, e diversi tracciati presenti in Ladri di canzoni ci portano a considerare che l’abitudine dell’appropriazione tematica, armonica e oggi addirittura ‘timbrica’, di mood, di campioni di suono o formule costruttive (si pensi ai software di composizione automatica) è purtroppo travasata ed esistita in ogni campo musicale, fino a raggiungere la musica di ricerca, che pure subisce continui furti. L’abitudine, ormai consolidata, è quella di attingere a piene mani da chi scopre nuove formule discorsive, edita, mette in rete opere che non riescono a produrre utili. Dopo aver individuato e rubato queste idee, esse vengono ridotte in formule e anestetizzate, addomesticate, svuotate dei contenuti più aspri (e critici, direbbe Adorno), e poi reinserite in un circuito di vendita: in grado, stavolta, di produrre vero denaro.
La possibilità di far ciò, di estrarre formule da idee, praticamente in ogni abitazione con l’ausilio di un semplice computer domestico, fa sì che chiunque possa depauperare del potenziale innovativo la musica realmente contemporanea (che non è assolutamente, si badi, quella sperimentalistica del secolo appena trascorso, di per sé incapace di rinvio di senso, e pertanto spesso inoffensiva per mancanza di ‘uscite’ dall’autoreferenzialità di microcircuiti caratterizzati solo da accademismo, carrierismo, manierismo snob), svilire – quindi – questa musica in grado di ‘dire’ qualcosa all’altro, a partire dalle pieghe di una rivoluzione del linguaggio (ben al di là della retorica del linguaggio comune), e dalla voce di chi fosse restato a urlare nelle ferite del piano (come alluso da Foucault, ma forse ancor meglio come ha mostrato Deleuze) per poi, dopo questo ‘sminamento’ sonoro, rivenderne l’appropriazione su canali a vocazione populista (nulla contro il popolare: ma siamo da decenni contro il populismo lasciato intender quale popolare). L’estetica dei media ha facilitato questa coazione, ha reso inoffensiva, perché appunto non populista, molta produzione di qualità, senza doverla per forza censurare, o sopprimere. È bastato ignorarla, prenderne alcuni stilemi, collocarli in un remix e venderli. Nessuna rivoluzione del linguaggio può avvenire in queste condizioni, perché persino il buono del kitsch (che anche in Broch si rintraccia) finisce col rivestirsi di una patina d’autorevolezza, conferita dagli incassi e dalla facile notorietà tipica del moto inerziale all’acquisto promanato dalle pile sugli scaffali degli autogrill.
In questo quadro, la possibilità residuale del valore ‘moltiplicato’ delle merci è ormai smarrita nell’ottica non già di una pluralità d’offerta da ‘supermercato’ (studi sulle prime Coop lo dimostrarono), che era parsa una buona idea in un certo momento della riflessione estetica, ma di una falsa e finta moltiplicazione da Centro commerciale. Il Centro: sin dal nome, nuova piazza dove collocare percorsi già decisi a tavolino (quindi ‘precorsi’ più che percorsi): merci di scarto, residuali, che i giovani trovano nelle periferie come unica offerta per i tempi residui di loro itineranze. Tutto ciò ha ormai svilito la possibilità di scelta e persino il bello dei percorsi ‘periferici’ di una volta. Esiste solo ciò che il Centro ci propone: e spesso si tratta di una pietanza rimasticata e sputata via – appunto – come scarto di produzione.
Quali possibilità di uscita? Il libro di Michele Bovi ci induce a una riflessione su come le pratiche di imitazione siano sempre esistite. Ma una cosa è il plagio estetico, quello che può citare perché il modello citato è già noto, già assimilato nella consapevolezza di generazioni che ne hanno sedimentato la forza di una progressione dei linguaggi, un’altra cosa è questa fagocitazione che di fatto rallenta la forza del nuovo, la vera innovazione (che si ripete, è Discorso) e quindi rende impossibile una critica e un avanzamento della comunità. E là dove l’estetica langue, si è circondati dal brutto (che qui è il già consolidato dal gregge), che oggi è soprattutto noia. I più giovani sono esposti alle rimasticature, alle cover-di-cover, e i grandi che Michele Bovi cita vengono anch’essi triturati in un gioco delle approssimazioni e dei rinvii musicali, dei rifacimenti, di pezzi inascoltabili che passano in Tv e purtroppo anche sui social, e che diventano virali in ragione del loro maggior svuotamento, allontanamento dalla profondità dell’invenzione originale.
Perciò, riflettere su questi meccanismi è cosa che dovrebbe partire dai banchi dei Licei, e le conseguenze delle pratiche di plagio – estetico o illiberale che sia – dovrebbero essere visibili, immediatamente leggibili, a tutti: per mantenere le possibilità di sopravvivenza dei linguaggi, di nuovi Discorsi, appassionarci a un bello non sputato via, o – quantomeno – “consapevolmente rimasticato”.
Per tutte queste ragioni, ho posizionato il volume di Michele Bovi affianco ai manuali Hoepli che si occupano di acustica, registrazione, video-arte, quelli insomma che consulto ogni giorno per le mie lezioni: è un libro prezioso. GIROLAMO DE SIMONE
Michele Bovi, Ladri di canzoni. 200 anni di liti musical-giudiziarie dalla A alla Z, Hoepli, Milano 2019. Presentazione di Maurizio Costanzo. Prefazione di Giorgio Assumma. Illustrazioni di Francesco Barcella, Sara Castillo, Celine Masutti, Alex Portera (Mohole scuola di cinema, comunicazione e storytelling)