Gli specchi dell’anima, Modigliani e Picasso nelle Metamorfosi di Maria Simonetta De Marinis


itinerari estetici di daniela marra |


Che venga, venga, il tempo che ci accenda! (Rimbaud)

Parigi 1927. Erano passati sette anni, da quando un freddo martedì di fine gennaio pittori, scultori, modelli e poeti di Montparnasse e Montmarte, seguivano un carro funebre coperto di fiori, mentre  ad ogni incrocio la polizia si metteva sugli attenti, dimentica delle ingiurie con cui tanto spesso aveva contrastato l’artista livornese. Non partecipò Nenette, Jeanne Hebuterne, che all’indomani della morte del suo amore si uccise, gettandosi dalla finestra della casa dei genitori. I cattolicissimi Hebuterne, così perbenisti, pensavano di mettere una pietra sopra lo scandalo di una figlia concubina e suicida, che aveva portato con sé nella tomba un bambino sul punto di nascere. Così divisero nella morte ciò che in vita era unito, l’amore sconveniente di Jeanne e Amedeo.  Solo dopo sette anni, nel 1927 i due feretri si riunirono nel cimitero di Pére-Lachaise. Ed è proprio di fronte alla fine, alla morte, che il fuoco della vita e dell’amore diventa più intenso. Il fuoco che brucia o riscalda, che quando avvampa è implacabile, il fuoco eterno che dimora nell’animo e nella pittura di Amedeo Modigliani. Il pittore più controverso di sempre, amato e odiato, i cui nudi rimandano emozioni contrastanti: commuovono per virginea castità o inorridiscono per spudoratezza.

Nonostante i giudizi si rincorrano, cercando di trovare la pietra filosofale della sua arte, incontrare Modigliani è un’esperienza sensoriale unica, che andrebbe vissuta senza cedere ad un frettoloso giudizio estetico personale. Seguire la linea raffinata e preziosa delle figure che si allunga oltre il reale, rivelando superfici di senso con levità, è come guardare una danza lenta e sensuale di squisita eleganza. L. Vitali nel 1929 paragona l’arabesco di Modigliani, che supera la realtà minuta del modello, innalzandolo in un altrove superiore, ad un flauto pastorale , che evoca con le sue modulate cadenze tutto un mondo nostalgico ideale, dove un’alcova meditativa e malinconica accoglie il fuoco dello spirito dell’artista che tutto brucia e consuma e la linea diventa sottile e immateriale.  E come le curve e le linee si intrecciano pian piano in una forma melodiosa, così la scrittrice e storica dell’arte Maria Simonetta De Marinis delinea musicalmente fra pause, riprese e incroci labirintici, le vita di Amedeo Modigliani e Pablo Picasso tra Eros e thanatos, attraverso due nazioni, l’Italia e la Francia, alla svolta del Secolo breve.  Le metamorfosi dell’anima: Amedeo Modigliani e Pablo Picasso da Montmartre a Napoli( Sagep Editori) evoca, grazie ad una raffinatissima ricerca documentaristica, la dolorosa fragilità di un’epoca di trasformazioni, che confluisce nella bruciante ricerca estetica e nel modo estremo di intendere l’esistenza sulle orme degli inferni rimbaudiani. Nell’atmosfera dei fascinosi e crudeli cafè parigini si intrecciano storie di eccessi e di entusiasmi, che  trovano terreno fertile per stimolare quelle trasformazioni che sono le linee di senso che percorrono tutto il romanzo. Il racconto della De Marinis conduce, alla maniera di Modigliani, in quella potente intimità spirituale che spoglia l’anima, affrontando il motivo della metamorfosi in modo picassiano, cubista, attraverso la frantumazione della linearità, per moltiplicare le prospettive e i punti di vista: alle metamorfosi dei personaggi fanno eco quelle dei luoghi. Pablo si adegua alla committenza, diventando pittore ricco e famoso, ma sempre insoddisfatto e animato dal fuoco della sperimentazione, Amedeo da dandy italiano, in quella Parigi babilonica e delirante, si trasforma in bohemien scapestrato.  Sono gli anni in cui la culla parigina dello spirito dell’arte si sta spostando da Montparnasse a Montmartre. Anche il periodo napoletano è vissuto all’insegna del cambiamento, un progresso che si fa strada nella multiforme realtà di una città sacra e profana insieme, che vive armonicamente le contraddizioni più profonde: la cappella San Severo rappresenta il luogo trasformativo per eccellenza, dove le esperienze misteriche vissute da Pablo e Amedeo confluiranno in un cambiamento interiore e di stile. L’inquietudine e l’ardore sono i sentimenti che emergono prepotentemente e in misura diversa nei due artisti, che pur mantenendo una propria individualità, bruciano di quel fuoco eterno appartenente alla creazione artistica, un’incessante espressione della passione implacabile dell’anima, mai soddisfatta. “Amedeo sentiva ancora quella sorta di maledizione che ormai era una costante, nella sua vita, che impediva l’ascesa libera verso quel paradiso perduto. La maledizione di non riuscire mai a raggiungere quello spirito, ma di essere tirato giù verso il baratro della materia dalla sua incapacità di distaccarsi dalle miserie della sua povera vita e anche dai piaceri dei sensi. Solo l’arte lo spingeva in un universo parallelo di beatitudine creativa ma tutto il resto…era dannazione.

Guardò ancora il volto di Jeanne addormentata e pensò che solo lei avrebbe potuto salvarlo. O forse la pittura, con i colori che gli raccontavano la storia infinita della natura, con le quattro stagioni e i quattro elementi, l’aria, l’acqua, la terra, e il fuoco. E quattro erano i passaggi dell’opera alchemica, corrispondenti ognuna a un colore: al nero la nigredo, e dunque la terra, la notte, la vecchiaia, l’inverno e la morte; al bianco l’albedo, assimilabile all’alba, all’acqua e alla primavera; al giallo,la citrinitas, come il colore dell’estate e della giovinezza, relativo all’elemento aria; ed infine al rosso rubedo, coincidente con la maturità, l’autunno e l’elemento fuoco.

Quel passaggio dalla terra alla luce, dalle tenebre all’illuminazione, lo sforzo di passare dall’albedo alla rubedo attraverso l’esercizio inflessibile della virtù. Era quello che aveva spinto Raimondo (Di Sangro) ad operare il suo percorso di metamorfosi, da iniziato a Gran maestro, squarciando il velo di tenebre del reale ed ascendendo alla sublimazione dello spirituale. Raimondo avrebbe voluto raggiungere la pace proprio nella sfera del fuoco, quello che egli chiamava il regno delle salamandre.

Amedeo sentì nelle vene quella stessa forza, la forza del colore, potente medium dell’energia cosmica, quello che parla direttamente all’animo comunicando in maniera immediata le emozioni dell’artista. Il colore è il tasto, l’occhio è il martelletto, l’anima è un pianoforte dalle molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, mette opportunamente in vibrazione l’anima”. Così Simonetta De Marinis descrive un momento riflessivo di Modigliani, durante l’esecuzione del ritratto di Pedro, uno dei tanti personaggi secondari che pur facendo da sfondo, riesce a emergere con forza nel racconto. Un mosaico di eventi e personaggi si compone via via dalla lettura del diario di Jeanne Hebuterne dalla voce della figlia di Modigliani, che vuole organizzare una grande mostra in ricordo del padre e si mette sulle tracce di un dipinto scomparso durante il soggiorno napoletano. Jeanne Modigliani, la figlia della coppia, inaridita dal senso di colpa di essere nata, dissolve la propria individualità nella ricerca affannosa di rivalutare il nome del padre, spesso infangato dalla critica. Tuttavia in questa indagine spasmodica, che sembra una morte apparente, ritroverà qualcosa d’inaspettato.

“Ce ne sono stati tanti prima: con più genio, con più sapienza, con più resistenza, con più speranza. Ce ne sono stati tanti che sono andati più in là prima e dopo. Ma Modigliani è uno. Modigliani è indivisibile. La sua storia comincia e finisce con lui. E anche la sua pittura. Modigliani è l’unità dell’anima. Era un peccatore rovinoso, di quelli che bruciano e tutto consumano per arrivare al centro dell’anima. (R. Carrieri, Amedeo Modigliani, 1950).

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