Divide et impera. Ovvero quel che non mi è piaciuto di Roberto Vecchioni


di antonio de simone | sociologo


Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito, con vicende alterne, all’affermarsi, nel nord del nostro Paese, dei regionalismi. Adesso, a seguito dell’emergenza pandemica che ha riportato in superficie questioni che viaggiavano carsicamente, molti segnali sembrano indicare che stiamo approdando a una sorta di municipalismi. Questi ultimi prendono le sembianze di una difesa della propria città, che sia d’origine o che abbia accolto e sono riferibili, soprattutto, alle grandi metropoli. Lasciando intatta la buona fede che guida gran parte di chi assume tali posizioni, la forza d’attecchimento di quest’idea (e delle relative pratiche che ne conseguono) è da ricercare nella natura di uno dei due bisogni irrinunciabili dell’essere umano, quello dell’appartenenza. Da esso l’inconscio trae le sue certezze perché è poco o per nulla condizionato dall’attualità; per esso è importante ciò che ha registrato nella fase formativa e iniziale della vita: i ricordi dell’infanzia che si riferiscono alla famiglia, ai luoghi d’origine, ecc.. Invece la parte consapevole, emotiva e razionale, di ciò che siamo da adulti, ha altre fonti dalle quali trarre le emozioni e le informazioni: il quotidiano con le sue contraddittorie luci e ombre. Recentemente, scorrendo gli articoli di giornale, mi sono imbattuto in un’intervista, dove sia il protagonista che l’argomento hanno catturato la mia attenzione. Man mano che leggevo, percepivo che quello, in realtà, era un appello, un grido di dolore: ciò mi ha creato perplessità e domande. Questa è stata la sensazione quando la mia attenzione è stata attratta-catturata dai temi di un’intervista rilasciata da Roberto Vecchioni, noto e affermato cantautore nonché docente, grazie a una laurea in lettere classiche. A lui mi legano emozioni e ricordi da quando ascoltai per la prima volta le sue canzoni.

Nel tempo, ho avuto modo di apprezzarne diverse, sempre eleganti, colte. Andiamo per ordine, individuiamo quella parte di questo colloquio-intervista, tra il Nostro e la giornalista del Sole 24ore Raffaella Calandra, che mi ha fornito questo spunto (datato 25 maggio c.a., è disponibile per intero sul web). Nell’occhiello la sintesi dell’intero articolo recita: «Non può mancare. È come se uno si svegliasse a Genova senza mare. Per Milano, il suo mare è il suo lavoro, la sua capacità ergonomica, la sua capacità di confronto dal vivo». L’intervista è breve e intensa, questo passaggio può ben racchiudere il tema principale: «Milano intanto è l’unica città italiana, gli altri sono paesoni. Non è grandissima, ma in qualità è l’unica vera città in Italia. E questo non lo dico, per orgoglio. Il dramma di Milano è che da quest’emergenza è stata colpita al cuore, è rimasta tra vita e morte. L’arte, l’economia, il lavoro, il pensiero: quando si ferma il cuore, si ferma circolazione. Ogni organo pensa di poter vivere da solo, ma non può. E quindi nessun paese, nessuna città, nessuna regione italiana può vivere, se muore Milano». Partendo dalla natura di queste affermazioni, indotte anche dal tipo di domanda che gli è stata rivolta, cosa ci sta dicendo il Professor Vecchioni? Cosa significherebbe per lui dire che Milano è l’unica città in Italia? Se tutte le altre “concentrazioni urbane” (scusatemi ma un sinonimo più appropriato non riesco a trovarlo!) sono paesoni come minimo dovrebbe fornirci il suo concetto di città. Perché etichettando con questo termine entità che sono il risultato di un lungo iter storico, sociologico, antropologico… , si rischia di essere fraintesi , mi dispiace: è una definizione che non rende giustizia alla realtà! Vi confesso, se le posizioni sostenute in questa intervista non fossero così variamente interpretabili, questo mio intervento non ci sarebbe stato: fare chiarezza è utile a tutti gli attori in campo, unica ineludibile condizione comune deve essere la buona fede. Intanto, mi ritornano in mente le documentate indagini di qualificate testate giornalistiche e televisive che conducono a un’incontrovertibile situazione: il perdurare in Lombardia di dati singolari e preoccupanti delle patologie sanitarie determinate dalla pandemia. Com’è ormai noto ai più, furono determinanti le scelte politiche regionali fatte durante la presidenza Formigoni ( 1995-2013, 4 mandati, senza soluzione di continuità). La fine di questo lungo periodo arrivò con l’arresto del Presidente e di altre persone a lui collegate; la condanna, per Formigoni, fu di corruzione, in appello è stata definita a 5 anni e 10 mesi. La motivazione recita che il tutto è collegabile al ruolo attribuito, su indicazione del Presidente, alla sanità privata nel sistema lombardo. Il meccanismo è chiaro, i risultati che ne sono scaturiti sono quasi del tutto noti, le responsabilità dei singoli
e delle istituzioni, implicati a vario titolo in più recenti procedimenti, sono al vaglio della magistratura e degli organi deputati.

A moltissimi italiani è chiara l’importanza dell’area, economica e culturale identificata come Milano e la regione di cui è capoluogo. Sanno bene che spesso essa accoglie, da’ lavoro e ospita persone provenienti da altre regioni: a nessuno sfugge la necessità dell’attuale ripresa delle sue attività. Alcuni degli immigrati, soprattutto quelli provenienti dalle regioni del centro-sud, conoscono i motivi storico- culturali di questa realtà e della sua ricchezza, riconoscono le preoccupazioni e le critiche di chi vuole difenderla e preservarla: spesso valutano la possibilità di trasferirvisi definitivamente. L’ipotesi più probabile è che Milano rappresenti, per vantaggi e rischi, quello che attualmente tutti, più o meno consapevolmente, considerano il benessere e il progresso. E’ il crocevia delle attività più significative per l’economia del nostro Paese (e in parte anche per l’Europa). Al momento stesso, per com’è, coagula e raccoglie le aspettative di tanti, anche di quelli che puntano ad un veloce (se non facile) successo: credo che nessuno possa e neppure voglia negare l’importanza del suo ruolo! Ci sono anche quelli come me che credono che ci siano altre modalità per fare economia e sviluppo, diversificando sempre più le imprese sul territorio nazionale, consentendo a molti nativi di continuare la loro vita nei luoghi d’origine. Mi riferisco anche a quelle persone che si sono immedesimate nella considerazione di Vittorini che riconosceva a Scicli (RG) il pregio di essere la città più bella del Mondo. Quelle che hanno compreso l’analisi di Pasolini che eleggeva Napoli come la prima città italiana che, proprio grazie ad alcune sue caratteristiche, poteva dirsi tale. Per quanto riguarda certe zone grigie, gli affari poco chiari, sarebbe sbagliato identificare il malaffare con l’appartenenza ad alcune aree geografiche. Non dovrebbe sfuggire a nessuno, i fatti lo dimostrano, non è questa la variabile significativa: il problema delle mafie è planetario, sono ramificate in tutto il nostro Paese, nessun’area ne è esclusa! Quindi non fa bene a nessuno arroccarsi in un’acritica difesa della propria appartenenza fatto salvo chi è già pronto a trarre dei vantaggi non leciti da questa divisiva contrapposizione. Sembra assistere alla scena di manzoniana memoria, quando il problema non è più rappresentato dalla peste, ma da chi ne testimonia l’esistenza attraverso il ruolo che riveste: (dagli al)l’untore. Questa volta però è individuato più lontano, in quelli che provengono dall’altra riva del Mediterraneo. Condivido la metafora delle città paragonate agli organi del corpo umano (quella indicata da Vecchioni, cui è accostata Milano); si converrà che affinché un organismo viva e funzioni bene, tutti gli organi dovranno attivarsi, concorrere, anche se in modo differente. Infatti, la vera questione potrebbe essere accordarsi su quale sistema sociale e produttivo vogliamo e possiamo realizzare per il Paese. Il contributo delle varie realtà potrà essere differente ma altrettanto utile e qualificato ai fini del progetto finale. Le nostre nuove generazioni ne hanno bisogno per entrare a far parte di un’Europa dalle pari opportunità. D’altronde, come faceva notare James Hillmann, per noi è più che possibile: quali ostacoli possono fermare il Paese che ha dato alla luce il Rinascimento?

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