Gli oggetti dell’anima: il potere del quotidiano nella trasfigurazione del reale


itinerari estetici di daniela marra |


Minuscolo fu definito il pacchettino che, negli anni ’50, giunse a Capri da Pechino. Aveva fatto un viaggio interminabile, eppure era avvolto in delicata carta di riso. Glielo consegnarono le mani gentili della moglie dell’ambasciatore Reale di Varsavia la quale lo aveva custodito per lei. Per maggiore sicurezza, l’aristocratica signora era stata direttamente incaricata dal marito. Avrebbe recapitato personalmente il dono misterioso alla destinataria. La curiosità era tanta: cosa mai poteva contenere quel piccolo pacchettino così prezioso, da aver messo in moto tre ambasciate, corrieri diplomatici e addirittura la corte del re?

Circa un secolo prima, due ragazzini gioiosi e scaltri bighellonavano tra i vicoli e i quartieri della città di Napoli. Si affacciavano di tanto in tanto sulla soglia delle botteghe d’Arte su strada con occhi colmi di curiosità e si incantavano, attardandosi, di fronte ai pastori dell’arte presepiale di San Gregorio Armeno. Vie polverose, oggetti rotti, cianfrusaglie abbandonate, chiacchiere che si confondevano al loro passaggio, ragazzini che giocavano e si rincorrevano, facevano da sfondo ai giorni della spensieratezza, seminando frammenti di vita nel terreno dei ricordi. Più tardi, il loro nome passò alla storia come Vicienzo e Totonno.

In ogni uomo c’è un bambino che vuol giocare ci ricorda Nietzsche, e lo dimostra senza mezzi termini Pablo Neruda mentre passeggiava per le vie di Capri, a secondo dell’umore, vestito da mago Merlino, Lawrence d’Arabia o in abito sobrio e impeccabile. La sensibilità estetica del poeta cileno, che collezionava un guazzabuglio di oggetti nel suo studio, dalle statuine di plastica ai preziosi disegni di Picasso, si potrebbe definire come un continuo e curioso entusiasmo di tutte le cose del mondo, senza alcuna selettività. Guardava tutto ciò che incontrava al di là del contingente e in maniera spontanea, proprio come i  due ragazzini dell’800 napoletano.

Pablo, era questa la firma in calce del bigliettino a corredo del misterioso dono, giunto a Capri da Pechino e finalmente tra le mani di Claretta Cerio che, incuriosita, non aspettò un secondo di più e, dopo aver tolto l’involucro, aprì la scatolina. Conteneva un piccolo fiore rosa, uno finto, di quelli che si mettono sulle torte di compleanno dei bambini insieme alle candeline. “Por Claretta una Flor – Pablo”.  La faccia della moglie del diplomatico di sua maestà, che aveva viaggiato fin lì serbando il pacchetto come una reliquia, dové apparire davvero indimenticabile. Roba da non credere! Ne avrebbero riso perfino Vicienzo e Totonno, la coppia di ragazzetti curiosi e instancabili che si aggiravano tra i quartieri popolari di Napoli. Vincenzo era orfano e fu abbandonato nella Ruota dell’Annunziata, per un errore di trascrizione il suo cognome fu annotato come Gemito, e mai l’artista volle cambiarlo perché alludeva alla sua vita caratterizzata dal dolore. L’accompagnò fin da giovanissimo il pittore Antonio Mancini, detto Totonno, con cui condivise gran parte della vita, l’arte e il destino travagliato. Mancini conquistò la Parigi dei Salon con i suoi Scugnizzi ancor prima di Gemito, che lo raggiunse in un secondo momento. Viene spesso sottolineato che i soggetti dei due artisti appartengono al mondo degli emarginati, ma ancor più spesso si dimentica che queste erano le realtà che effettivamente vivevano.  Lo scultore Vincenzo Gemito, in particolare, non solo si rivolse a soggetti realistici, ma fu “esempio di una rivoluzione naturalistica concreta nell’adozione di un’antica tecnica, quella della cera persa” (Luisa Martorelli). Gemito è un artista coraggioso, che osa seguire la sua ispirazione personale, non curandosi delle tendenze artistiche dominanti, senza intellettualismi intenzionali, in aperta contraddizione con l’impressionismo che in quegli anni avvolgeva l’Italia in atmosfere di sogno commovente. Questa opposizione fu spontanea, l’artista racconta la storia dei vicoli tra malinconia e furbizia, trasfigura  le creature del suo mondo donando loro la dignità della statuaria classica, e così una contadina diventa una dea, e un giovane pescatore un dio. Come demiurgo, modella la creta a somiglianza dei frammenti della propria vita e di ciò che agitava il suo animo.

Vincenzo Gemito, Testa di fanciullo, 1871. Museo e Certosa di San Martino, Napoli.

La sua coraggiosa sublimazione del reale è spogliata da ogni idealizzazione formale. Il Giovane Pescatore Napoletano è pieno di vita, una storia d’incanto quotidiano che va oltre il contingente, come la rosellina di Neruda, e diventa sacra. Il ragazzo sembra appena uscito dall’acqua, lo sguardo furbo, il corpo magro e i muscoli guizzanti, è immagine di vita, una vita catturata in un istante, in uno sguardo. La furbizia che si rintraccia negli occhi del pescatore è poetica adesione al vero, e non è poi così lontana da quella che avremmo visto negli occhi dello stesso Gemito quando, a notte fonda nel convento di S. Andrea delle Dame, si travestiva con un lenzuolo sulla testa e si divertiva a spaventare il vicinato dal tetto, o nel momento in cui cadde rovinosamente imitando il numero dell’uomo piovra dei circensi del teatro Bellini.  Di fronte alle sculture di Gemito lo stupore è grande nell’udire il caotico alternarsi di risate che si rincorrono tra il vociare di donne e bambini o nel cogliere un triste pianto sommesso. Sembra di toccare la vita con l’anima, la sacralità nel quotidiano oltre il contingente. Proprio come quella rosa di plastica giunta a Capri, dono di un artista che vedeva negli oggetti comuni ciò che altri non riuscivano a cogliere. Ciò vive nella poesia di Neruda, anche una semplice cipolla, passando per lo sguardo del poeta, si trasforma magicamente in divinità e rivive come globo celeste e stella dei poveri (Ode alla cipollaPablo Neruda ).

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