Gaza, la via della pace è un percorso di morte

Leila Anwar Ghandour era una bambina di soli otto mesi. Uccisa tra i palestinesi rimasti uccisi nel corso delle proteste al confine con Gaza, nel giorno in cui a Gerusalemme si inaugurava la nuova ambasciata, fatta traslocare da Tel Aviv alla città santa per volere del governo israeliano e del consenso degli Stati Uniti di Trump. A dare un nome e un volto alla bambina è la stampa palestinese, che racconta come la bimba sia morta dopo avere inalato il gas lacrimogeno sparato dagli israeliani per reprimere la protesta durante la quale 61 persone hanno perso la vita. Leila è morta questa mattina in ospedale. Un dottore a Gaza, parlando con l’agenzia Associated Press, ha ipotizzato che la bimba avesse una condizione medica pre-esistente, ma non è chiaro se sarà fatta un’autopsia per accertarlo. Una storia assurda quella delle tanti morti che si contano da anni tra palestinesi e israeliani. Un percorso che abbiamo tentato di riannodare.

di paola guadagno

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Continua a scorrere il fiume di sangue che lo scorso 14 maggio ha percorso il territorio della Striscia di Gaza, quando i palestinesi hanno messo in atto un movimento di protesta contro l’inaugurazione dell’ambasciata americana a Gerusalemme. Settanta anni fa, nel 1948, 700 mila palestinesi furono costretti ad abbandonare i loro territori, dopo la nascita dello Stato di Israele, e le commemorazioni hanno oggi sempre il sapore amaro dello scontro, della guerra tra Davide e Golia, una guerra impari che genera una carneficina di centinaia e centinaia di vittime. Ancora due morti, dopo i 61 di lunedì e gli oltre 2800 feriti, tutti palestinesi, per i quali l’OLP ha proclamato tre giorni di lutto.

L’ambasciatrice Usa all’Onu rifiuta di ammettere un collegamento tra i tragici eventi degli ultimi giorni e il trasferimento dell’ambasciata: “Le violenze provengono da chi rifiuta l’esistenza dello stato d’Israele in ogni luogo […]La sede diplomatica non pregiudica le prospettive di pace”.

L’area della Striscia di Gaza non è riconosciuta come stato sovrano e paga il fio di un controllo frantumato: se Hamas, organizzazione politica e paramilitare,  nel 2007, dopo gli scontri con al – Fath, il partito dell’allora presidente dell’ANP (Autorità nazionale palestinese) e il successivo conflitto con Israele, ha assunto il governo de facto del territorio, Israele continua ad avere potere sullo spazio aereo e marittimo, sul movimento di merci e persone, e rivendica dal 1967 Gerusalemme capitale “eterna ed indivisibile”. Gli israeliani compongono circa il 60% della popolazione di Gerusalemme  e occupano militarmente zone abitate da palestinesi. Da decenni i tentativi di accordo tra le parti si risolvono in sterili momenti di tregua di un conflitto che non riesce ad esaurirsi.

Contrapposte alle immagini di morte e devastazione che hanno lacerato il cuore del mondo c’è il sorriso accecante di Ivanka, figlia del Presidente Donald Trump, che ha guidato la cerimonia di inaugurazione dell’ambasciata, spostata a Gerusalemme da Tel Aviv, ed ha commemorato l’evento con queste parole: “A nome del quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America, vi diamo ufficialmente il benvenuto per la prima volta nell’ambasciata degli Stati Uniti qui a Gerusalemme, la capitale d’Israele“. È chiaro l’intento dell’America di legittimare il ruolo di Israele, allontanando sempre più ogni ipotetico accordo di pace. Dal 1995, anno in cui il Congresso approvò una legge che riconosceva Gerusalemme capitale di Israele stabilendo di spostarvi l’ambasciata, nessun Presidente ne aveva autorizzato l’esecuzione, rinviata sistematicamente da Clinton, Bush, Obama e da Trump fino allo scorso 6 dicembre.

Ad Hamas, coinvolto nel tentativo di ristabilire un equilibrio pacifico con Israele, è stato chiesto dai Paesi europei membri del Consiglio di sicurezza di “evitare provocazioni”. Ad essi si è associato Nikolay Mladenov, coordinatore speciale dell’Onu per il processo di pace in Medio Oriente, che ha altresì chiesto ad Israele un “uso della forza calibrato”. Gli ultimi eventi hanno però espresso un utilizzo indiscriminato della violenza da parte delle forze armate israeliane, infatti tra le vittime c’è anche una bimba di appena 8 mesi, Leila al Ghandour, deceduta per aver inalato gas lacrimogeni. Sono almeno 8 i minori uccisi, piccolo specchio di una mattanza che investe chiunque si trovi in una terra insanguinata da controversie prive di luce. Manifestazioni di giubilo vengono dal Premier israeliano Benjamin Netanyahu che durante la cerimonia ha dichiarato “Non abbiamo migliori amici al mondo che gli Usa. Grazie per aver avuto il coraggio di mantenere la promessa”.

Venerdì 18 maggio si riunirà il consiglio Onu richiesto dal governo palestinese per fare luce sui “crimini commessi dalle forze di occupazione militare contro gente inerme”. Una attestazione di solidarietà e vicinanza ai civili di quelle terre insanguinate è stata espressa quest’oggi da un gruppo di intellettuali di diversa nazionalità, attraverso un appello che stimoli una risoluzione del conflitto senza armi. “Noi sottoscritti, sostenitori del diritto di Israele ad esistere come stato entro confini legittimi, sicuri e riconosciuti, e ugualmente di quello dei palestinesi ad uno stato indipendente […] non possiamo tacere di fronte all’uso sproporzionato della forza da parte di Israele. L’uso di armi da fuoco contro civili è ammissibile soltanto se detti civili partecipano direttamente ad azioni ostili, non se varcano o cercano di superare la frontiera con Israele. Vi sono mezzi non letali per contenere e disperdere proteste anche di massa. Condanniamo la retorica fondamentalista di Hamas che non abbandona il rifiuto di Israele né desiste da una guerra di guerriglia che espone la gente di Gaza alla rappresaglia di Israele. Chiediamo, soprattutto, che tacciano le armi e si cerchino ora e per il futuro, da parte di tutti, le vie politiche del dialogo, della conoscenza reciproca e della pace in tutta la regione”. Tra di essi anche gli italiani Giorgio Gomel, Roberto Saviano e Alessandro Treves.

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